Sullo stato di eccezione liturgica

Le liturgie sono rimaste vittime del coronavirus, che ha di fatto imposto di aggiustarne le forme espressive alla mancanza del popolo – ridotto ad una simbolica rappresentanza, ove possibile – e aprendo al tempo stesso un’antica ferita canonica sulle sue forme legittime. La liturgia non è un semplice accidente ecclesiale, ma costituisce la forma sostanziale della lex credendi. Il popolo di Dio prega così com’è, e nei secoli ha pregato in modo diversi, complessi e articolati che hanno portato alla compresenza di riti diversi, che caratterizzano anche le forme giuridiche dell’appartenenza ecclesiale.

Sicché il rito è molto più di una semplice forma cerimoniale della rappresentazione liturgica: esprime il modo di essere di una comunità di fede. Ed è per questo motivo che la Chiesa attribuisce ai Vescovi la responsabilità di regolare le modalità espressive della fede del popolo di Dio. Tali espressioni non hanno nulla a che fare con le tradizioni devozionali o folcloristiche: coinvolgono la Tradizione stessa della fede e le sue forme sacramentali.

Tale complessità si esprime nell’attuale can. 838 del Codice di diritto canonico della Chiesa latina, che costituisce un frutto del rinnovamento liturgico fatto proprio dal Concilio Vaticano II e, riformando la precedente tendenza accentratrice, ribadisce che la competenza in materia spetta ai Vescovi, con l’ovvio supporto della Santa Sede e delle Conferenze episcopali[1]. La liturgia esprime il munus sanctificandi e non può essere considerata una semplice modalità espressiva del culto, lasciata quindi alla creatività di un gruppo o di un singolo; ed è proprio per questo che l’autorità ecclesiale può obbligare a seguire una determinata forma liturgica.  

Su queste basi si colloca il Motu Proprio Summorum pontificum con cui nel 2007 Benedetto XVI ha ribadito il «principio antico» che ha guidato i Vescovi di Roma nel coordinamento della disciplina delle forme del culto, per «evitare errori, ma anche per trasmettere l’integrità della fede»[2]. In questo atto normativo il Papa prende atto che la riforma liturgica voluta dal Concilio Vaticano II e promulgata da Paolo VI, e poi in parte rinnovata da Giovanni Paolo II, aveva in parte convissuto con alcune forme di resistenza del culto c.d. “tridentino”.  Tanto che il 3 ottobre 1984 la Congregazione per il culto divino aveva informato le Conferenze episcopali che il Papa aveva offerto «ai Vescovi diocesani la possibilità di usufruire di un indulto» per «poter celebrare la S. Messa usando il Messale Romano secondo l’edizione del 1962». Indulto, si badi bene. Non facoltà piena. Un indulto peraltro condizionato. Fra i vincoli previsti, primeggiava ­­che constasse che i sacerdoti ed i rispettivi fedeli che chiedevano di ricorrere al vecchio rito in nessun modo condividessero «le posizioni di coloro che mettono in dubbio la legittimità e l’esattezza dottrinale del Messale Romano promulgato dal Papa Paolo VI nel 1970»[3].

Com’è noto, la questione liturgica aveva infatti tracimato in un movimento di aperta contestazione all’autorità pontificia e all’autorevolezza stessa del magistero conciliare, che il 2 luglio del 1988 portò all’emanazione del Motu proprio Ecclesia Dei adflicta, con cui il Papa prendeva atto dello scisma consumato dall’Arcivescovo Marcel Lefebvre, e al contempo manifestava ai «fedeli cattolici, che si sentono vincolati ad alcune precedenti forme liturgiche e disciplinari della tradizione latina» la volontà di facilitare la loro comunione ecclesiale, istituendo una Commissione col compito «di facilitare la piena comunione ecclesiale dei sacerdoti, seminaristi, comunità o singoli religiosi e religiose finora in vario modo legati alla Fraternità fondata da Mons. Lefebvre, che desiderino rimanere uniti al Successore di Pietro nella Chiesa Cattolica». In sostanza, una porta aperta per rientrare nella piena comunione.

A distanza di quasi venti anni, Summorum Pontificum ha consolidato l’indulto sub condicione già concesso dal Giovanni Paolo II, ammettendo come espressione straordinaria della lex credendi l’uso del Messale romano del 1962, considerato appunto un mero uso dell’unico rito romano. La normatività della lingua latina aiuta a soppesare il valore del termine usus, che indica la «messa in opera» dell’azione liturgica, intesa nel senso letterale come forma di culto, che nulla ha a che vedere con la pregnanza – anche giuridica – del «rito», che rimane unico per tutta la Chiesa latina. Alla luce di questo Motu proprio anche l’istituzione della Commissione Ecclesia Dei, voluta da Giovanni Paolo II e dall’allora Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede,  va giuridicamente apprezzata nel suo valore sostanziale: un organismo di vigilanza volto ad impedire che l’uso del rituale preconciliare potesse mantenere il valore eversivo dell’autorità della Tradizione che gli era stato impresso dal vescovo scismatico e dai suoi fedeli.  

Diventato Sommo Pontefice, Joseph Ratzinger ha continuato a perseverare nella sua strategia di ricomposizione dello scisma, tanto che, avendo già sdoganato il Messale del 1962 quale forma straordinaria di celebrazione, il 21 gennaio 2009 il Prefetto della Congregazione dei Vescovi, in forza delle facoltà concessegli da Papa Benedetto, decreta la rimessione della scomunica ai vescovi scismatici seguaci di Lefebvre. Un atto di cui il Papa ebbe presto a pentirsi, in quanto non fu preso per il verso giusto dai suoi destinatari. Sicché convenne che la questione aveva perso il sapore apparentemente legato alla forma del culto, e si era definitivamente spostata sul piano della sfida dottrinale. Così il 10 marzo 2009 incardinò la Commissione Ecclesia Dei – adflicta, si ricordi! – nella Congregazione per la dottrina della fede. Una strada ribadita ancora recentemente da Papa Francesco, che il 17 gennaio 2019 ha nuovamente affermato che i temi affrontati nel 1988 da Ecclesia Dei adflicta riguardavano questioni dottrinali e non di mera forma del culto, e ha pertanto soppresso definitivamente la vecchia Commissione e assegnato ad un’apposita sezione della Congregazione per la Dottrina della Fede l’opera di vigilanza, di promozione e di tutela dagli errori che hanno prodotto lo scisma, e che verosimilmente ancora sfidano l’autorità del Concilio e del Papa.

La ricostruzione degli atti giuridici e del loro contesto dà atto della permanente ferita prodotta alla Tradizione della Chiesa dal mantenimento di una forma di celebrazione straordinaria, che era inizialmente giustificata dalla strategia di ricomposizione dello scisma condotta da Benedetto XVI, e che egli stesso ha ammesso non avere prodotto i frutti sperati. Ed è per questi motivi sostanziali che un nutrito gruppo di teologi ha chiesto alla Congregazione della dottrina della fede di rivedere due Decreti del 25 marzo 2020 (Quo magis e Cum sanctissima) che, in tempo di pandemia, hanno straordinariamente modificato il Messale del 1962, dando l’impropria impressione che essi possano essere utilizzati come forma di celebrazione alternativa a quella ordinaria.

Sotto questo profilo i teologi danno voce ad una legittima preoccupazione circa la plausibilità dell’uso indifferenziato dei due Messali; quasi che si fosse dimenticato che l’uso di quello del 1962 costituisce un’eccezione alla regola ordinaria. Eccezione stabilita in forza di un’emergenza che, col tempo, ha inequivocabilmente assunto la veste di una forma potenzialmente eversiva dell’autorità del Magistero conciliare e pontificio (che non troppo tempo fa è intervenuto modificando proprio la lettera del canone 838, per evitarne un’interpretazione stravagante che si era fatta strada negli uffici della Curia, di cui ho già scritto).

Bisogna riconoscere che i teologi non devono essere lasciati da soli in quest’opera di stimolo della gerarchia a rivedere le proprie posizioni. E’ necessario che anche i canonisti prendano la parola, soprattutto se si considera che un ufficiale della Curia romana ha frettolosamente criticato l’appello dei teologi, proprio sulla base di argomentazioni giuridiche. Ancorché debolissime, esse denotano come la dimenticanza della sostanza della Tradizione produca facilmente la dimenticanza delle basi stesse del diritto liturgico della Chiesa latina. Parlo della ineliminabile tentazione di interpretare il diritto a partire dalle eccezioni, rendendole la parte centrale anziché marginale della norma canonica. Un’abitudine che Manzoni riconosceva in don Abbondio, e che alberga sempre più frequentemente nei canonisti curiali che si rifugiano nel latinorum perdendo di vista il disegno dello Spirito. Cosa che in tempi di pandemia deve essere ritenuta particolarmente pericolosa. Si rischia altrimenti di concentrarsi sulle sole forme, perdendo di vista che esse vestono la sostanza.


[1] Tratto questo tema in modo più completo in P. Consorti, Liturgia e diritto . Conseguenze giuridiche della riaffermazione del Magnum principium per cui la preghiera liturgica deve essere capita dal popolo, in Rivista liturgica, 2019, pp. 37-65.

[2] Cito dal M.P. Summorum Pontificum, che a sua volta cita dal n. 397 dell’Ordinamento generale del Messale Romano, 2002, 3a edizione.

[3] Lettera circolare Quattuor ab hinc annos, inviata in data 3 ottobre 1984 dalla Congregazione per il culto divino ai Presidenti delle Conferenze Episcopali.

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