Tutti hanno segreti da conservare. E anche la Chiesa ha i suoi segreti. Non c’è nulla di male: se non ci fossero i segreti non ci sarebbero segretarie e segretari. E’ questione di fiducia e riservatezza. Nessuno ha piacere che certe cose vengano messe in piazza, specialmente se sono spiacevoli . La Chiesa ha costruito gran parte della sua potenza sulla capacità di custodire i segreti che, almeno dal punto di vista giuridico, non sono però tutti uguali.
Il segreto più noto è senz’altro il «sigillo sacramentale», conosciuto anche come «segreto confessionale»: quello che vincola il confessore al silenzio assoluto in ordine al contenuto di quanto gli è stato rivelato in occasione dell’amministrazione del sacramento della riconciliazione (o penitenza: insomma, la confessione). Il confessore non può mai tradire la fiducia del penitente: non solo non può rivelare quanto ha saputo, me nemmeno servirsene in maniera indiretta. Il sacerdote che viola il sigillo sacramentale incorre nella scomunica.
Ci sono poi altri segreti meno solenni. Ad esempio, anche nella Chiesa, sebbene si voti poco, il voto è segreto. Com’è noto, devono restare segrete anche le operazioni elettorali nel «conclave»; e con un’apposita chiave deve essere ben chiuso anche l’armadio che contiene i documenti più segreti dell’archivio segreto, che ogni curia diocesana deve possedere. Chi lavora in quegli uffici deve conservare il «segreto d’ufficio», che ha una speciale curvatura quando riguarda l’attività processuale.
Insomma, i segreti possono restare ben nascosti.
Ad abundantiam, nel 1974 San Paolo VI emanò un rescritto con cui istituì formalmente la categoria del «segreto pontificio»: un obbligo che bisognava rispettare non tanto in forza della legge esteriore, ma pel dovere di «di dignità umana» che tocca coloro che lavorano per il «bene pubblico». Tale specialissimo segreto lega tutti coloro che sono chiamati ad assistere il papa negli uffici della curia romana in merito ad un certo numero di questioni elencate nell’articolo 1 dell’Istruzione Secreta continere, tra cui la preparazione dei documenti pontifici, le denunce di scritti contro la dottrina delle fede, le denunce extragiudiziali relative a delitti contro la fede e la morale, il relativo processo e la connessa decisione (fatto salvo il diritto del denunciato di conoscere la denuncia, se questo è necessario alla sua difesa), le notizie relative alla nomina di vescovi o cardinali, i codici per decifrare le «note arcane», e più in generale tutte le questioni che il pontefice o i cardinali preposti ad un dicastero decidessero di porre sotto il «segreto pontificio».
Il M.P. Sacramentorum sanctitatis tutela (2001) precisa che sono sotto il segreto pontificio anche tutte le cause sottoposte al giudizio della Congregazione per la dottrina della fede: in qualche modo estendendo l’area di copertura già riservata alle denunce extragiudiziali nell’Istruzione del 1974. In questo campo rientrano i «delitti più gravi» contro i costumi: quelli contra sextum commessi da un chierico verso un minore di diciotto anni e l’acquisizione, detenzione o divulgazione, a fine di libidine, di materiale pedopornografico.
I giornali di oggi (17 dicembre 2019) inneggiano alla caduta del «segreto pontificio» sugli abusi, e anche autorevolissimi commentatori si spingono a scrivere che questa decisone agevolerà la giustizia civile degli Stati (qui), e che anche gli atti « che si trovano negli archivi delle diocesi, e che fino ad oggi erano sottoposti al segreto pontificio, potranno essere consegnati ai magistrati inquirenti dei rispettivi Paesi che li richiedano» (qui). In realtà non è proprio così.
Oggi – a conferma della capacità della Chiesa di custodire i suoi segreti – è stato reso noto che il 6 dicembre scorso papa Francesco, su richiesta della Segreteria di Stato, ha stabilito nuove norme in materia di riservatezza delle cause relative ai delitti più gravi e a quelli definiti nel M.P. Vos estis lux mundi, del 7 maggio 2019 (ossia i delitti contro il sesto comandamento del Decalogo consistenti nel costringere qualcuno, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, a compiere o subire atti sessuali; nel compiere atti sessuali con un minore o con una persona vulnerabile; nella produzione, nell’esibizione, nella detenzione o nella distribuzione, anche per via telematica, di materiale pedopornografico, nonché nel reclutamento o nell’induzione di un minore o di una persona vulnerabile a partecipare ad esibizioni pornografiche; nonché le condotte poste in essere da alcuni per eludere le indagini civili o canoniche, amministrative o penali, nei confronti di un chierico o di un religioso in merito a tali delitti), stabilendo che non sono più coperte dal «segreto pontificio» le relative denunce, processi e decisioni.
Questo però non significa che siano anche cadute le norme che impongono di mantenere il tradizionale e più semplice «segreto d’ufficio», che resta pur sempre un segreto.
A questo proposito mi sembra molto chiarificatrice la nota del Segretario del pontificio consiglio per l’interpretazione dei testi legislativi, pubblicata anch’essa oggi sull’Osservatore romano, sotto il titolo «riservatezza e dover di denuncia». Il prelato spiega bene che lo scopo dell’Istruzione è quello di «cancellare in questi casi la soggezione a quello che viene chiamato “segreto pontificio”, riconducendo invece il “livello” di riservatezza, doverosamente richiesta a tutela della buona fama delle persone coinvolte, al normale “segreto d’ufficio” stabilito dal can. 471, 2° cic (can. 244 §2, 2° cceo), che ogni Pastore o il titolare di un pubblico ufficio è tenuto a osservare in modalità distinte a seconda si tratti di soggetti che hanno diritto a conoscere dette notizie e di chi, invece, non è in possesso di alcun titolo per averle». Mi sembra una precisazione un po’ manchevole, in quanto non investe, ad esempio, la materia più propriamente processuale, sulla quale vige pure uno specifico «segreto d’ufficio processuale» (can. 1455).
Il commento all’Istruzione ne spiega un po’ anche l’origine. In Vaticano deve esserci stato un certo imbarazzo a seguito dell’introduzione (marzo 2019) del più generale obbligo di denuncia di tali reati, ulteriormente esteso il 7 maggio 2019 col M.P. Vos estis lux mundi. Questi documenti non accennavano né al «segreto pontificio» né al «sigillo sacramentale», e anzi si precisa che l’obbligo di denuncia prevale pure sul «segreto d’ufficio». Un po’ troppo, devono aver pensato i canonisti. E quindi hanno chiesto al papa come risolvere questa apparente contraddizione, che pesa specialmente sui funzionari della curia romana, che come abbiamo visto sono legati al più forte «segreto pontificio».
La risposta di Francesco è stata molto chiara. Per parte sua, ha tolto il «segreto pontificio», e quindi l’obbligo di denuncia non ha più alcuna ragione di essere disatteso. A scanso di equivoci, ha persino proclamato che il segreto d’ufficio «non osta all’adempimento degli obblighi stabiliti in ogni luogo dalle leggi statali, compresi gli eventuali obblighi di segnalazione, nonché all’esecuzione delle richieste esecutive delle autorità giudiziarie civili». E se non fosse sufficientemente chiaro, ha detto che «a chi effettua la segnalazione, alla persona che afferma di essere stata offesa e ai testimoni non può essere imposto alcun vincolo di silenzio riguardo ai fatti di causa».
Questo è parlar chiaro. Ovviamente, il «sigillo sacramentale» resta invariato, ma il segnale è chiaro: «abbattete il muro del silenzio! Non nascondetevi dietro i segreti e non mettete il papa come scusa per tacere!»
Ora speriamo che il papa sia ascoltato e che i segreti siano svelati!