Sulla benedizione delle unioni fra persone dello stesso sesso, fra diritto e dottrina.

Il 22 febbraio 2021 la Congregazione per la dottrina della fede al quesito proposto «La Chiesa dispone del potere di impartire la benedizione a unioni di persone dello stesso sesso?» ha  risposto «Negativamente».  La motivazione (comunicata il 15 marzo 2021) si fonda su alcuni documenti ecclesiali di carattere dottrinale, senza mai citare il diritto canonico. La cosa non meraviglia, dato che in diverse circostanze e da più parti è stato già messo in luce che la Chiesa cattolica sembra aver riposto il diritto canonico in un cassetto, ben chiuso a chiave, e forse ha perfino dimenticato dove ha nascosto la chiave.

Mi sembra utile provare a condurre un esperimento immaginando di rispondere al quesito proposto, argomentando però in termini giuridici anziché dottrinali. Parlando cioè di poteri, diritti e doveri e non di catechismo o morale.  


Il quesito pone in realtà due domande: la prima verte sul potere della Chiesa disciplinare le benedizioni, e l’altra se possa farlo nel caso di benedizioni amministrate a unioni di persone dello stesso sesso. Dal punto di vista giuridico la risposta è incontrovertibilmente affermativa. La motivazione non necessita di grandi discorsi. Basta vedere che il Codice di diritto canonico – sulla scorta degli atti del Concilio Vaticano II – tratta le benedizioni nel quadro dei «sacramentali», ossia «segni sacri attraverso i quali, per una qualche imitazione dei sacramenti, sono significati e ottenuti per impetrazione della Chiesa effetti soprattutto spirituali» (can. 1166). Il can. 1167 § 1 precisa poi che la Sede apostolica «può costituire nuovi sacramentali, o interpretare autenticamente quelli già accolti, come abolirli o modificarli». Insomma, ha il potere necessario.  

Si può aggiungere che le benedizioni sono «azioni liturgiche» comunitarie, che il Concilio ha voluto affidare principalmente all’amministrazione dei laici, riducendo a «pochissime» quelle riservate ai Vescovi o agli Ordinari. Tali «azioni liturgiche» sono state pertanto precisate e regolate in un apposito titolo del rituale romano, promulgato nel 1984 da Giovanni Paolo II, che attribuisce anche alle Conferenze episcopali nazionali la possibilità di redigere opportuni adattamenti liturgici. Non si deve però confondere il rito con la sostanza: il c.d. «benedizionale» non è una fonte giuridica, ma una guida liturgica[1].  

Per considerare la sostanza normativa, bisogna vedere il Codice, che innanzitutto si sofferma sul fatto che le benedizioni riguardano le persone e non le cose (che non sono escluse, ma molto limitate vedi il can. 1171], e precisa che vanno sì impartite soprattutto ai cattolici, ma possono essere date anche ai catecumeni e, in assenza di una esplicita proibizione della Chiesa, anche ai non cattolici (can. 1170). Questo particolare non deve passare in secondo piano, dato che la peculiarità delle benedizioni sta nell’esprimere una forza spirituale che la Chiesa elargisce anche ad extra. Come dire: il bene di Dio è per tutti gli uomini e le donne, a prescindere dalla loro condizione sacramentale. Non è ancora una prova, ma un ottimo indizio per continuare ad argomentare la risposta affermativa; non senza aver chiarito che il diritto canonico riconosce senza alcun dubbio che la Chiesa ha il potere di disciplinare le benedizioni.

Passiamo ora al secondo punto e vediamo se sussistano ostacoli alla possibilità di prevedere la benedizione di «unioni di persone dello stesso sesso». Il canonista qui incontra un ostacolo apparentemente insormontabile, dato che il diritto canonico non conosce le «unioni di persone dello stesso sesso». Per capire di che si parla è pertanto costretto a rivolgersi altrove. E volgendo lo sguardo intorno (mettendosi «in uscita») non può fare a meno di osservare che l‘espressione «unioni di persone dello stesso sesso» di per sé non comporta univocamente e necessariamente il riferimento a relazioni caratterizzate da un orientamento omosessuale. Ma senza andare troppo per il sottile, il canonista è disposto ad accettare ragionevolmente l’assimilazione delle «unioni di persone dello stesso sesso» alle relazioni stabili di tipo matrimoniale, ipotesi che il diritto canonico certamente assegna alle sole unioni fra un uomo e una donna (can. 1055: unioni fra persone di sesso diverso, benché a prescindere dall’orientamento etero o omosessuale). E‘ quindi effettivamente verosimile supporre che le «unioni di persone dello stesso sesso» di cui qui si discute sono in buona sostanza i «matrimoni omossessuali» (secondo la terminologia utilizzata in alcuni ordinamenti statali) o le «unioni civili» (secondo la definizione usata ad esempio dalla legge italiana).  Su questa base, ancorché implicita eppure assorbente, la Congregazione per la dottrina della fede ritiene che non sia possibile benedire un’unione che inevitabilmente implica «una prassi sessuale fuori dal matrimonio». Ragionamento moralmente plausibile, ma giuridicamente inaccettabile, dato che prova più del necessario e non considera il fatto che la Chiesa ammette la benedizione anche di non battezzati, e non subordina le altre benedizioni all’accertamento di una regolarità morale. Ad esempio, la Chiesa prevede la benedizione dei fidanzati, che a stretto rigore potrebbero esercitare «prassi sessuali fuori dal matrimonio», e anche quella nuziale degli sposi, che, una volta benedetti, potrebbero svolgere una futura attività sessuale non necessariamente aperta alla procreazione. Insomma: si tratta di argomentazioni morali ultra petitum.

Il canonista rimane anche un po‘ spaesato dal fatto che la Nota motivazionale oscilla fra la negazione del potere della Chiesa sulle benedzioni e l’affermazione della sua volontà non discriminatoria delle persone omosessuali. Ammette infatti la benedizione degli omosessuali, ma non la loro unione, in quanto ritiene che non possa non essere peccaminosa. Come ha osservato Andrea Grillo, la Congregazione appare qui prigioniera di una logica sistematica impropria e di un’idea pedagogica del diritto, che finisce – paradossalmente – per ammettere la limitazione del potere disciplinare della Chiesa in una materia meramente liturgica, al solo scopo di prevenire l’eventuale commissione di un peccato sessuale.

La risposta negativa della Congregazione per la dottrina della fede è pertanto giuridicamente inappropriata. Ma tant’è. In attesa che la Chiesa si liberi dalla gabbia della morale sessuale, il popolo di Dio può legittimamente pregare con le parole del Salmo 102 e benedire ogni unione d’amore: la gloria di Dio – fino a prova contraria – è l’uomo vivente![2]


[1] Per qualche approfondimento, vedi le note pubblicate in questo intervento.

[2] Siccome la Nota della Congregazione precisa che «Il Sommo Pontefice Francesco, nel corso di un’Udienza concessa al sottoscritto Segretario di questa Congregazione, è stato informato e ha dato il suo assenso alla pubblicazione del suddetto Responsum ad dubium, con annessa Nota esplicativa», vorrei precisare che non siamo di fronte ad un atto di valore normativo che risale alla volontà del Pontefice romano, ma ad un semplice responsum, che come tale ha un valore  solo dottrinale, nella misura in cui esprime un parere motivato ancorché confutabile. Insomma, non è – almeno, ancora – il caso di dire che Roma locuta, causa finita.

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