Esercizi di laicità: dalla bilateralità pattizia al dialogo interreligioso (a causa del Covid-19).

I limiti stabiliti alle forme di espressione collettiva del sentimento religioso a causa della pandemia, hanno sollevato all’attenzione pubblica una questione rimasta irrisolta circa le relazioni fra lo Stato italiano e le rappresentanze religiose. Anzitutto, va precisato che le precauzioni eccezionali adottate dalle autorità religiose per contrastare il contagio non sono state soltanto una semplice conseguenza del rispetto dovuto alle regole statali. L’idea che le religioni siano state costrette a piegarsi alla volontà liberticida statale costituisce un’assurdità fondamentalista. Il tempo – ancorché breve – ha dimostrato che l’adozione di misure restrittive della libertà di movimento e di riunione sono state forse addirittura tardive, e comunque giustificate dalla gestione di un’emergenza sanitaria senza precedenti.

Le comunità religiose hanno adottato propri provvedimenti di self restraint, verosimilmente modulati sulle misure adottate su larga scala dalle autorità pubbliche.  Si è trattato di adattamenti rituali particolarmente significativi, in quanto hanno coinvolto anche le celebrazioni più importanti dell’anno per molte fedi: la Quaresima, la Pasqua (che coinvolge gli Ebrei, i Cristiani di varie confessioni: cattolici, ortodossi, protestanti, ma anche i Testimoni di Geova, che ricordano la morte di Gesù), il Ramadan, la festa di Vesak e altre ancora.

Tuttavia, in questo contesto non è mancato chi ha lamentato un’indebita interferenza statale nell’ambito dell’autonomia confessionale. Voci anche autorevoli si sono levate specialmente dal versante cattolico, lamentando la mancanza di un’adeguata consultazione delle autorità ecclesiastiche, fino a ventilare una lesione della bilateralità concordataria e persino dell’art. 7 Cost. La gestione emergenziale della crisi ha fatto registrare toni accesi e non poche contraddizioni. Qualche vescovo cattolico, ad esempio, ha sostenuto l’irragionevolezza della sospensione delle celebrazioni collettive, vantando una fideistica esenzione delle chiese dal contagio. La Conferenza episcopale è sembrata intenzionata a riprendere le celebrazioni delle Messe anche senza attendere il via da parte delle autorità sanitarie, ma si è poi paradossalmente autolimitata quando questo segnale di ripartenza è arrivato, mostrando di essere ancora più cauta (mi riferisco alle regole per la celebrazione dei funerali e alla posizione dei Vescovi sardi).

Problemi di applicazione delle regole statali non sono mancati. Le autorità di governo hanno dovuto rispondere a molti dubbi via via emersi, spesso di carattere comune a tutte le esperienze religiose, anche a quelle di tipo laico, come nel caso dei riti di commiato. Il prolungamento del periodo di emergenza ha sollevato ulteriori questioni che possono ragionevolmente essere affrontate con intelligenza, non appena si sia condivisa la necessità di subordinare l’esercizio dei riti e delle cerimonie all’adozione delle prescrizioni di prevenzione e contenimento del contagio ancora necessarie. Non è in questione la libertà di culto, ma il diritto alla salute collettiva.

L’obiettivo è pertanto trasversale: le religioni non sono una controparte dello Stato, ma soggetti in grado di favorire e facilitare il successo delle misure adottate nell’interesse collettivo, attivando energie spirituali proprie, per tacere delle reti di solidarietà che vi sono collegate. Un obiettivo senz’altro condiviso anche dalle organizzazioni spirituali, umaniste e atee, che sovente vengono pretermesse da quest’ambito, pur collocandosi nell’alveo delle forme di espressione della libertà di pensiero, coscienza e religione[1].

La via più breve per risolvere queste dinamiche relazionali è quella di rispolverare gli istituti tradizionali della bilateralità pattizia: ossia attivare – nonostante l’emergenza – forme di dialogo istituzionale parametrate su quelle concordatarie (che coinvolgono la sola Chiesa cattolica) e per intesa (che coinvolgono solo una parte delle comunità religiose, ed esclude quelle atee).  L’idea di fondo è che le due parti  – che in realtà, sono molto più di due – debbano negoziare bilanciando interessi contrapposti: come se gli anni fossero passati invano, e la società italiana fosse ancora quella degli anni Quaranta del secolo scorso, che immaginava queste forme di dialogo come relazioni fra poteri sovrani.

Certamente, una relazione bilaterale è meglio di nessuna relazione, e in questo senso può essere letto con favore l’emendamento presentato dall’On. Stefano Ceccanti, e condiviso dal Governo, che inserisce una procedura pattizia per la progressiva apertura delle celebrazioni religiose di tutti i culti subordinandola all’adozione di protocolli sanitari «adottati di intesa con la Chiesa cattolica e con le confessioni religiose diverse dalla cattolica». Purché sia considerato anch’essa una prassi temporanea e non indicativa di un percorso istituzionale di dialogo con le comunità religiose, che deve essere necessariamente ed esclusivamente incanalato nelle forme della bilateralità pattizia. La quale esclude larghe parti dei soggetti interessati, in quanto privi di un riconoscimento formale che li abiliti a partecipare a queste auspicabili forme di confronto.

La scelta di adottare procedure differenziate per il confronto, da un lato, della Chiesa cattolica e, dall’altro lato, di tutte le altre comunità religiose tradisce la scarsa maturazione del principio di laicità dello Stato. In questa circostanza, la Chiesa cattolica ha perso un’occasione per schierarsi al fianco degli altri partner confessionali; il percorso di una corsia preferenziale dimostra una scarsa autocomprensione della sua posizione sociale. Il Governo ha accondisceso alla differenziazione cattolica, assegnando alla Conferenza dei vescovi un ruolo da protagonista delle trattative anziché di comprimaria, restando a sua volta schiacciato dalla scarsa comprensione della geografia reale dei soggetti religiosi italiani, che non si esauriscono nelle forme giuridicamente note.

L’esigenza di associare tutte le comunità di fede ad un medesimo cammino volto alla considerazione comune dei bisogni religiosi è emersa già alcuni anni fa, con riferimento alle comunità islamiche. Le quali, per ragioni politiche, e non giuridiche, non hanno ancora avuto la possibilità di attivare le procedure previste dall’art. 8, III comma, Cost., e sono state perciò coinvolte in altre forme di interlocuzione istituzionale. Queste ultime si sono svolte nell’ambito delle competenze del Ministero dell’interno, ove insiste la Direzione generale per gli affari di culto, che è l’interlocutore primario dei soggetti che intendono entrare in relazione formale con le autorità pubbliche a livello nazionale. Un’altra esperienza inclusiva, ancorché occasionale, è stata fatta nel 2012 con la convocazione di una Conferenza permanente «Religioni, cultura, integrazione»[2], che avviava un modello di dialogo laico e inclusivo, che si è perfezionato in occasione dell’organizzazione nel 2017 – da parte del Ministero dell’interno e col contributo di un gruppo di Università italiane – di un evento formativo rivolto ai ministri di culto stranieri. Inizialmente pensato a vantaggio dei soli imam, quest’ultimo è stato proficuamente allargato a tutte le guide religiose delle comunità senza intesa, e si è di fatto tradotto nella prima esperienza istituzionale e pratica di dialogo interreligioso[3], favorita da un’istituzione dell’Amministrazione pubblica centrale[4].

Queste esperienze riflettono l’importanza di implementare forme di dialogo religioso, inteso come l’incontro dei soggetti a vario titolo interessati a condividere le regole per lo svolgimento delle pratiche connesse all’esercizio dei diritti di libertà religiosa ( e anche areligiosa, se connesse all’etica spirituale).  La gestione dell’emergenza sanitaria ha dato l’opportunità per replicare questo modello, dato che il Ministero dell’interno ha convocato una riunione con tutte le comunità di fede – con e senza intesa – per condividere un protocollo per la ripresa in sicurezza delle celebrazioni religiose. Si tratta di una conferma della validità del modello inclusivo e partecipativo, che supera la dimensione della logorata bilateralità pattizia, a vantaggio di una migliore relazione fra soggetti a vario titolo interessati a regolare l’esercizio delle libertà in questione.

Il paragone fra sistemi centenari (quelli di bilateralità pattizia) ed esperienze contemporanee (quelle di dialogo religioso) comporta l’impiego di creatività ed energie nuove. Tale impegno nasce dall’analisi della società contemporanea, che restituisce un’immagine di «superdiversità», nella quale il ruolo delle comunità religiose non si atteggia tanto come quello di poteri paritetici allo Stato, quanto quali formazioni sociali (art. 2 Cost.) che concorrono al «progresso materiale e spirituale della società» (art. 4 Cost.). Questo modello di esercizio della laicità ha il vantaggio di sottolineare le diversità che si presentano anche al livello territoriale, ove sono presenti «consulte» o «tavoli» che possono efficacemente mettere in relazioni bisogni specifici e risposte concrete, in grado si superare efficacemente criticità puntuali che il sistema pattizio al livello statale non è sempre – come dimostrano anche gli ultimi avvenimenti –  capace di affrontare.

L’esperienza delle intese finora sottoscritte in applicazione dell’art. 8 Cost. ha messo a sua volta in luce la parzialità delle risposte adottate in tale prospettiva. Le leggi sulla base di intesa hanno creato di fatto una sorta di diritto comune facilmente estensibile anche alle comunità religiose senza intesa. Perciò il ricorso all’intesa mantiene una prevalente funzione di aggancio progressivo al sistema del finanziamento pubblico, che peraltro presenta a sua volta molte criticità, che non afferiscono però direttamente alla questione del sistema di relazioni fra la Repubblica e le comunità religiose.

Il Protocollo sottoscritto fra la Conferenza episcopale italiana e il Governo italiano il 7 maggio 2020 ha il merito di superare alcune criticità e toni polemici, ma anche il demerito di certificare una inadeguata preferenza verso la Chiesa cattolica. Alcuni passaggi del documento rivelano peraltro inappropriate commistioni fra sacro e profano, come nel caso della dispensa canonica dal precetto festivo, sottoscritta oltre che dal Presidente dei Vescovi, anche dal Presidente del Consiglio dei ministri e dal Ministro dell’interno. Da un altro lato, i Vescovi cedono volontariamente una parte della loro autonomia, sottoponendo regole liturgiche e sacramentali al vaglio dell’autorità di governo. Una maggiore attenzione formale da entrambe le parti avrebbe garantito una minore sbavatura istituzionale, che allo stato non appare nemmeno giustificata dai tempi stretti dell’emergenza (dato che le celebrazioni riprenderanno fra più di 10 giorni).

La società reale, da questo punto di vista, sembra più avanti delle istituzioni. Essa reclama un cambio di paradigma culturale, che vada oltre le tradizionali visioni dei rapporti fra Stato e confessioni religiose per dirigersi verso forme repubblicane di dialogo religioso, aperto a tutti. La bilateralità è precedente alla laicità. E, forse, non siamo ancora pronti all’esercizio di una matura laicità inclusiva.


[1] Fede religiosa e fede laica in dialogo, a cura di P. Scoppola e P. Consorti, Guerini, 2007.

[2] Ricostruisco questi passaggi in Diritto e religione, Laterza, 2014, pp. 231 ss.

[3] Intendo dire che non si è trattato di una delle molte cerimonie di «dialogo interreligioso», ma di una vere e propria attivazione di una prassi dialogica concreta.

[4] Cfr. Religione, immigrazione e integrazione. Il modello italiano per la formazione civica dei ministri di culto stranieri, a cura di P. Consorti, Pisa University Press, 2018.

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