Con due recenti lettere date in forma di Motu proprio papa Francesco ha dapprima modificato il can. 230 del Codice di diritto canonico – eliminando la riserva di accesso ai ministeri del lettorato e dell’accolitato ai soli «laici di sesso maschile» (Spiritus Domini, 10 gennaio 2021) – e poi istituito il «ministero laicale» di catechista (Antiquum ministerium, 10 maggio 2021). In entrambi i casi si tratta di significative novità normative che insistono sui processi di revisione dei ministeri ecclesiali che, nell’arco di due millenni, si sono caratterizzati in maniera complessa, articolata e plurale.
Per svolgere qualche breve considerazione è opportuno ricordare che il Concilio Vaticano II ha posto a tale riguardo alcune basi di cui non si può non tenere conto. In primo luogo, ha precisato che la missione della Chiesa si caratterizza nell’evangelizzazione e che tutti i battezzati sono ministri di questa funzione. In altri termini, l’appartenenza alla Chiesa impegna una ministerialità battesimale, propria di un sacerdozio universale dal quale nessuno è escluso. Nell’ambito della compagine sociale che determina la Chiesa quale organizzazione di persone e comunità dedite alla evangelizzazione, alcuni ministeri derivano dalla ricezione del sacramento dell’ordinazione: i ministeri ordinati sono l’episcopato, il presbiterato e il diaconato, che nella Chiesa cattolica sono riservati ai maschi.
La Costituzione dogmatica Lumen gentium (21 novembre 1964) concentra la ministerialità ordinata nella funzione che la comunità cristiana delle origini aveva affidato ai vescovi e ai loro collaboratori: appunto, presbiteri e diaconi (n. 20). Nell’insieme costoro costituiscono il corpo clericale della comunità dei fedeli, una porzione dei battezzati e delle battezzate, chiamata a svolgere compiti di servizio all’intera comunità. Su questa base si è consolidata una tripartizione che vede da una parte i fedeli ministri ordinati («destinati principalmente e propriamente al sacro ministero»), da un’altra parte i religiosi (e le religiose, che «col loro stato testimoniano in modo splendido ed esimio che il mondo non può essere trasfigurato e offerto a Dio senza lo spirito delle beatitudini») e infine i laici (e le laiche, che «per loro vocazione […] cercano il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio»).
Questo schema tripartito regge la dimensione istituzionale della Chiesa cattolica, che è «popolo di Dio», formato da tutte le battezzate e i battezzati, ma strutturata come una società dispari, composta innanzitutto dai ministri ordinati, che formano la c.d. «Chiesa gerarchica», e poi da religiosi e religiose, laici e laiche, che coprono uno spazio peculiare. Definirlo marginale o secondario sarebbe certamente un errore, ma tale qualifiche esprimono bene lo stato dei fatti di quanto accade nell’istituzione ecclesiale, che si regge sugli uffici attribuiti al vescovo e ai suoi collaboratori anche in termini di esercizio del potere che deriva loro dal sacramento e dall’ufficio che esercitano. La Chiesa del Concilio Vaticano II ha alleggerito la distanza medievale fra popolus ducens – i «ministri ordinati» – e popolus ductus – tutti gli altri e le altre – ribadendo la comune afferenza all’unico Popolo di Dio. Tuttavia, ha mantenuto ferma la già accennata distinzione fra i soggetti ordinati, i religiosi e le religiose – intesi come coloro che seguono «più da vicino» Cristo Signore – e i laici (e le laiche) che diventano centrali – almeno, nelle intenzioni – nelle dinamiche ad extra (spesso definite senza mezzi termini: temporali), ma sono considerati semplici collaboratori nelle questioni ad intra.
Tale distinzione tradizionale si fonda su una dicotomia artificiale fra «sacro» e «profano» che ha attraversato i secoli, e oggi si riflette in una perdurante incertezza della collocazione sistematica dei battezzati nella dimensione istituzionale della Chiesa, che sovente offre una rappresentazione non sempre realistica della loro effettiva posizione rispetto ai ruoli e alle funzioni effettivamente esercitate nelle singole comunità.
Un esempio di tali diverse collocazioni sistematiche è offerto dall’evoluzione delle funzioni ministeriali nel corso del tempo, e fino ad oggi, come emerge anche dagli ultimi provvedimenti citati in premessa. Com’è noto, i ministeri c.d. «istituiti» del lettorato e dell’accolitato, che da poche settimane non sono più esclusivi dei maschi, costituiscono l’eredità di funzioni in precedenza considerate come passi di avvicinamento all’ordinazione sacra. L’accolito e il lettore erano coloro che – senza essere sacramentalmente ordinati – si preparavano a diventare «ministri del sacro» in senso stretto: si parlava di «ordini minori». Dopo il Concilio l’accolito – almeno stando al rito istitutivo – non solo deve «aiutare i Presbiteri e i Diaconi nello svolgimento del loro ufficio», ma «come ministro straordinario» distribuisce «ai fedeli, anche malati, la santa Comunione», e ama «il popolo di Dio che è il Corpo Mistico di Cristo, specialmente i deboli e gli infermi».
La funzione del lettore è quella di «proclamare la parola di Dio nella assemblea liturgica, studiarsi di educare nella fede i fanciulli e gli adulti, prepararli a ricevere degnamente i sacramenti, annunziare il messaggio della salvezza agli uomini che lo ignorano ancora». Come si vede, si tratta di ministeri centrati sugli aspetti liturgici (ad intra), ma che in parte si esprimono anche in maniera estroversa, tipica della vocazione dei laici.
Non bisogna peraltro dimenticare che il Concilio ha condotto anche a una rivisitazione del diaconato, che a sua volta non è più solo un grado di passaggio del sacramento dell’ordine, ma anche un ministero ordinato permanente. Anche le funzioni dei diaconi non si limitano agli aspetti liturgici, ma si concretizzano prevalentemente in ruoli intraecclesiali. Da questo punto di vista, si conferma l’idea che i «ministeri» – tanto ordinati quanto istituiti – si focalizzano prevalentemente sulle attività cultuali della comunità cattolica, che finiscono per sembrare il cuore della vita della Chiesa, e danno l’impressione (sbagliata) della già accennata distinzione fra «sacro» – che è monopolio dei chierici – e «profano» – che costituirebbe la peculiarità delle laiche e dei laici. Al contrario, la vita cristiana si dovrebbe svolgere in una continua sovrapposizione dell’annuncio evangelico su ogni aspetto della vita del popolo di Dio, senza troppo distinguere fra «aspetti clericali» e «questioni popolari», e soprattutto senza mai dimenticare che la missione ad extra rappresenta il vero cuore della vocazione ecclesiale.
I provvedimenti citati in premessa danno adito a un potenziale paradosso: la Chiesa in uscita è affidata ai laici e alle laiche che vivono e parlano nel mondo e annunciano il vangelo con la loro vita, mentre i ministri ordinati e istituiti si occupano prevalentemente della vita interna – del culto e della catechesi – e da questa sede educano e formano gli altri laici e le altre laiche alla «verità delle cose sacre». In termini secolari si potrebbe parlare di una prospettiva di professionalizzazione degli «addetti ai lavori», che, con parole ecclesiali, rischia di trasformarsi in una «clericalizzazione del laicato». A me pare che questo modo di vedere ponga dei problemi innanzitutto in termini di effettiva comprensione della realtà soggettiva del popolo di Dio, e poi di coordinamento fra la vita – per così dire – vera, e le azioni liturgiche, che vivono di riti e vita e ministri propri, separati però dal mondo.
Resto un attimo sulla questione liturgica. Mi sembra che la vita sociale restituisca l’immagine di un avvenuto corto circuito fra la «liturgia» – intesa principalmente, se non esclusivamente, come «celebrazione della Messa» – e la «vita cristiana». Il primo polo – ossia il rito – prevale sul secondo, fino al punto che il «vero cristiano» è quello che «pratica la vita liturgica». Esiste persino una sottile distinzione terminologica fra i «laici» e i «laici impegnati»: coloro che vivono intorno all’altare e negli ambienti canonici. Insomma: quelli che fanno la spola tra la parte propriamente laica e quella religiosa e clericale.
Peraltro, la sottolineatura dell’accolitato, del lettorato e dei catechisti come ministeri propri laicali, a mio modesto parere incide sulla realtà già vissuta nelle comunità cattoliche, istituzionalizzando ulteriormente funzioni carismatiche e di servizio che sovente sono già attribuite nelle singole comunità senza bisogno di subordinarle a condizioni soggettive specifiche o all’esito di un percorso formativo prestabilito che termini necessariamente con l’affidamento pubblico di un ministero. Esistono già «ministri di fatto»: lettori e lettrici, ministranti e persone che distribuiscono l’eucarestia, catechisti e catechiste che svolgono tali funzioni al servizio della comunità senza bisogno di ricevere un mandato formale. Temo che la progressiva istituzionalizzazione in senso stretto di questi ministeri possa produrre esiti appunto istituzionalizzanti, potenzialmente problematici. Come dire: clericalizzi il laicato. Mentre il tema dovrebbe essere quello della laicizzazione estroversa del clero.
La nuova istituzione del ministero laicale dei catechisti certamente appare come un potenziale «miglioramento» della posizione dei laici e delle laiche nella Chiesa. Tuttavia, si tratta del riconoscimento di un ruolo ad intra che dovrebbe essere proprio di ciascun fedele. L’idea che in futuro questa funzione potrà essere svolta solo da coloro «che ricevano la dovuta formazione biblica, teologica, pastorale e pedagogica per essere comunicatori attenti della verità della fede», restituisce esattamente quella immagine di laici e laiche impegnate, riconosciuti come tali dall’autorità episcopale, e che in un certo senso lasciano il mondo per entrare nella compagine ecclesiale più stretta.
Non voglio fare il processo alle intenzioni ed è presto per determinare gli effetti di un provvedimento che dovrà essere attuato in tutto il mondo. Guardandolo dall’Italia, è fuor di dubbio che chi oggi pensa ai catechisti e alle catechiste non può non pensare già a laici e laiche, spesso anche a religiose e religiosi (più raramente ministri ordinati, che per lo più concepiscono i catechisti come loro diretti collaboratori e collaboratrici) dedite alla formazione dei bambini e delle bambine che si avvicinano per la prima volta al sacramento dell’eucarestia (la benemerita «prima comunione», quasi elevata a dignità sacramentale propria), o di coloro che intendono ricevere il sacramento della confermazione – spesso animatori di gruppi giovanili – oppure degli animatori e formatori che accompagnano alla celebrazione sacramentale del matrimonio (il più delle volte successiva a periodi di convivenza stabile se non a celebrazioni di matrimoni civili) e talvolta ormai anche come catechisti dei catecumeni: candidati al battesimo o genitori – non praticanti – che chiedono il battesimo dei neonati. Questo mondo di volontari e volontarie resisterà all’urto dell’istituzionalizzazione?
Se guardiamo la questione da altre angolature del mondo, specialmente quelle particolarmente carenti di ministri ordinati, non possiamo non vedere che i catechisti e le catechiste già svolgono spesso funzioni di presidenza dell’assemblea, anche liturgica, secondo modalità che sfuggono alla logica istituzionale della Chiesa gerarchica, e che pertanto costituiscono un problema in termini di ordine complessivo (il riferimento a Querida Amazonia [2 febbraio 2020] appare d’obbligo). L’istituzionalizzazione del catechista insiste inevitabilmente su questi processi di libertà carismatica, vocazionale e comunitaria e non può non apparire come un modo per ricomporre possibili fughe in avanti dentro uno schema rassicurante di compatibilità istituzionale.
In genere le regole giuridiche seguono e non precedono la vita sociale. Quando le norme arrivano a regolare la realtà, sovente la imbrigliano. Papa Francesco ci ha abituato a vedere processi che si avviano con tempi superiori agli spazi. In molti casi il diritto interviene per regolare questi processi costruendo spazi che li costringono in tempi più definiti. Sta forse a noi essere protagonisti attivi di questi processi per impedire che la logica dell’introversione prevalga su quella dell’estroversione.