L’estate del 2019 non è molto propizia per chi si occupa di Terzo settore, specialmente se impegnato nell’affido familiare. La fase di transizione normativa che si è aperta nel 2016, fra alti e bassi, sta subendo una brusca frenata. Il nuovo Terzo settore fatica a vedere la luce e resta incastrato fra regole inadeguate, promesse – non mantenute – di agevolazioni fiscali e il sostanziale fallimento delle politiche sociali. Il Terzo settore può giocare un ruolo significativo se il primo e secondo fanno la loro parte: l’assenza dei primi due protagonisti impedisce al Terzo di prendere il volo e lo condanna ad una inadeguata supplenza delle mancanze altrui. Il clima di diffidenza cattivista – e molto approssimativa – che aleggia intorno a chi si occupa di solidarietà e sussidiarietà contribuisce a complicare il quadro di riferimento. Le ONG sono percepite come bande di malviventi, i cooperanti come profittatori, i volontari come eversori del potere costituito. Il populismo cerca di accorciare le distanze fra chi governa e chi è governato, distrugge i corpi intermedi, esclude gli ambiti di consultazione, grida slogan e … non capisce quello che succede.
La questione “case famiglia” = business sulla pelle dei minori è un ultimo esempio di questo schema logico (si fa per dire), che urla slogan senza sufficiente conoscenza della realtà delle cose e fa di tutta l’erba un fascio. Infatti già adesso il “superiore interesse” dei bambini e delle bambine è il principio giuridico alla base dell’ordinamento vigente [Convenzione Onu sui diritti del fanciullo del 1989, ratificata in Italia con la legge n. 176 del 1991]. Chi ha fatto prevalere altri interessi ha sbagliato, ed è giusto che paghi. Bisogna però evitare di essere travolti dagli errori e buttare via esperienze positive e principi di civiltà giuridica oramai acquisiti.
Partiamo quindi dal punto centrale e inequivocabile: l’interesse dei bambini prevale su ogni altra questione, anche sul loro status di figli. I bambini sono gioco forza figli di qualcuno, ma non necessariamente di buoni padri e buone madri. E non tutte le famiglie sono buone famiglie. Dimenticando questo assunto, si inanella una catena perversa di errori. Talvolta i bambini vanno salvati dalle loro famiglie. Ed è per questo che la legge prevede due istituti di garanzia: l’adozione (che adesso lasciamo da parte) e l’affido familiare. Quest’ultimo è concepito come un provvedimento temporaneo che permette ad una famiglia in difficoltà di essere sostenuta da un’altra famiglia che l’aiuti a superare le difficoltà. E’ un istituto di solidarietà familiare, che esalta i legami di prossimità sociale. Non sempre le famiglie in difficoltà riescono ad attivare reti di sostegno intrafamiliare. Specialmente quelle in situazioni di maggiore disagio ricorrono perciò ai servizi sociali. Un tempo questo significava entrare in relazione con un funzionario pubblico, oggi non è più sempre così, in quanto i servizi sociali sono spesso affidati dai Comuni a soggetti del Terzo settore. Qui c’è un primo nodo irrisolto. Il primo settore non è in grado di assumersi questa responsabilità pubblica, che cede al privato sociale, che non sempre dispone delle risorse necessarie per assumersi responsabilità che, in realtà, non gli competerebbero.
I servizi sociali lavorano a stretto contatto con l’autorità giudiziaria, che a sua volta non sempre è in grado di entrare nel merito delle situazioni che gli vengono proposte. I giudici si affidano ai servizi sociali: ed è questo un secondo nodo irrisolto. I provvedimenti di affido disposti dal giudice senza il consenso delle famiglie coinvolte e in assenza di un chiaro progetto di recupero delle capacità genitoriali, sposta il centro dell’istituto dell’affido dal sostegno della famiglia alla tutela del minore, trasformandolo di fatto in un provvedimento di allontanamento dei bambini da un ambiente considerato – di fatto – irrecuperabile. Questo tipo di affidi nel gergo si chiamano sine die: cioè senza fine, e integrano una vera e propria contraddizione rispetto alla temporaneità dell’affido. Sine die c’è solo l’adozione (che è un’altra cosa, e come ho detto non è qui in questione).
Su questa lacunosa condizione di base insistono poi anche gli affidi consequenziali alle separazioni personali o ai divorzi. Insomma, legati a cause diverse da disagi sociali, ma imputabili alla responsabilità dei genitori. Qui i giudici spesso non distinguono, e applicano modalità di giustizia difensiva, che i servizi sociali non sono in grado di contenere.
Veniamo alle “case famiglia”: che sono un fiore all’occhiello della civiltà giuridica contemporanea, che ha cancellato dalla storia brefotrofi, orfanotrofi e manicomi, sostituendoli – non sempre riuscendoci – con realtà residenziali che potessero assomigliare il più possibile a famiglie vere e proprie (con i loro pregi e difetti). Gestire una struttura residenziale in grado di ospitare bambini (talvolta, neonati) o adolescenti (spesso, difficili) non è una passeggiata né un’impresa priva di costi. Occorre – direi – una vocazione, che esclude il vantaggio economico dall’orizzonte di chi si mette in gioco: chi vuol fare soldi, non apre una casa famiglia. Certamente, anche in questo tessuto virtuoso può nascondersi un orco. E’ possibile che qualcuno voglia approfittarsi dei bambini per farne soldi. La letteratura è piena di esempi, che possono anche aggiornarsi ai tempi contemporanei. Ci sono state maestre d’asilo che hanno abusato dei loro allievi, madri che hanno ucciso i propri figli, padri che hanno violentato le figlie: ed è per questo che la legge protegge i bambini anche dai loro parenti.
Insomma: uno Stato che funziona punisce gli abusanti e i profittatori, ma non cede alla tentazione di colpevolizzare tutti coloro che si occupano degli altri. Salva la reputazione dei buoni e attacca quella dei cattivi. Un compito che dovrebbe cominciare dalla chiarezza delle parole. Se i buoni diventano buonisti e i cattivi cattivisti, tutte le vacche diventano grigie. E nessuno riuscirà più a trovare una famiglia in cui ripararsi.