Sul titolo dell’ordinazione episcopale: la nostalgia del bel tempo che fu.

In un recente contributo il teologo Andrea Grillo pone un problema relativo all’attribuzione del titolo di «Arcivescovo ad personam». In estrema sintesi, egli critica la permanenza di un sistema che continua ad assegnare «titoli episcopali» senza popolo, e «titoli onorifici» (qual è in definitiva quello di «arcivescovo»[1]) incompatibili con la comprensione attuale del ministero episcopale, che è necessariamente «ad populum», o «ad officium», e non può essere «ad personam».

Non c’è dubbio che su questo tema insistono questioni trasversali, di carattere storico, giuridico, teologico, e anche simbolico e araldico. Il tema non è nuovo né pacifico: si tratta di niente meno definire quale sia il «titolo dell’ordinazione», vale a dire la ragion d’essere della consacrazione sacramentale che «ordina» un soggetto a svolgere una determinata funzione ecclesiale (un «ministero ordinato»).

Non è possibile qui rifare la storia di una questione assai complessa e articolata, oltre che controversa. Partiamo dalla fine, e vediamo che il Codice di diritto canonico fa una prima distinzione del Popolo di Dio fra «fedeli laici» e «ministri sacri» o «chierici», e poi si occupa di definire la «costituzione gerarchica della Chiesa». Quest’ultima costituisce quindi l’organizzazione funzionale e istituzionale della Chiesa, che com’è noto si articola a livello universale – in una dinamica fra il «Romano pontefice» e il «Collegio dei vescovi» – e a un livello particolare, sostanzialmente definito su base territoriale[2]. I membri del Collegio sono tali «in forza della consacrazione sacramentale e della comunione gerarchica con il capo [che è il Sommo Pontefice] e con i membri del Collegio». Quest’ultimo è inteso come espressione continuativa del primo «collegio apostolico»: da questo punto di vista, l’ordinazione episcopale ha un titolo universale.

Tuttavia, la «costituzione gerarchica della Chiesa» non si esaurisce nella dinamica universale, anzi trova la sua ragion d’essere nell’articolazione fra le diverse «Chiese particolari, nelle quali e dalle quali sussiste la sola e unica Chiesa cattolica» (can. 368). La forma prevalente di «Chiesa particolare» è la «diocesi»: una «porzione del popolo di Dio che viene affidata alla cura pastorale del Vescovo con la cooperazione del presbiterio, in modo che, aderendo al suo pastore e da lui riunita nello Spirito Santo mediante il Vangelo e l’Eucaristia, costituisca una Chiesa particolare in cui è veramente presente e operante la Chiesa di Cristo una, santa, cattolica e apostolica» (can. 369).  Vediamo quindi che i membri del Collegio episcopale sono tali in quanto titolari di un ufficio particolare, che svolgono al servizio di una determinata porzione del popolo di Dio, con la collaborazione dei presbiteri. Dal punto di vista del Codice, pertanto, il «titolo universale» è conseguenza del «titolo particolare». Ne deriva che non può esserci un vescovo senza popolo (può esserci invece un vescovo senza presbiterio[3]).

Tutti i vescovi sono «successori degli apostoli». Quelli cui è affidata la cura di una diocesi sono «vescovi diocesani», ma possono esserci anche «vescovi titolari», che sono consacrati senza che venga loro affidata la cura pastorale di una porzione del popolo di Dio. Si chiamano «titolari» proprio perché, in ossequio al principio per cui un vescovo è per un popolo, il titolo della loro consacrazione corrisponde sempre a una diocesi, anche se inesistente[4]. Insomma, si è determinata la finzione giuridica di vescovi diocesani senza popolo[5].

Questa finzione ha provocato diversi problemi, specialmente alla luce dell’ecclesiologia maturata nel Concilio Vaticano II, che ha sottolineato la centralità del ministero episcopale. La contraddizione dell’esistenza di vescovi senza popolo si è riproposta quando nel 1966 è stata precisata la regola – anch’essa definita nell’ultimo Concilio – di rinunciare all’ufficio episcopale al raggiungimento del 75mo anno di età. La rinuncia all’ufficio fa cadere il titolo dell’ordinazione, anche se non fa venire meno la consacrazione episcopale; perciò, bisognava trovare una soluzione che compensasse la perdita del titolo senza escludere le prerogative connesse all’ordinazione. La soluzione tradizionale di attribuire il titolo di una diocesi fittizia era a portata di mano, anche se confliggeva con la consapevolezza della necessaria corrispondenza fra titolo formale e sostanziale cura pastorale definita dal Concilio.

Così nel 1970 la Congregazione dei vescovi dispose che i vescovi rinunciatari per età continuassero a conservare il titolo della diocesi presso la quale avevano prestato la cura pastorale, e con cui certamente restava un legame spirituale, senza essere insigniti di un titolo fittizio. Pertanto, da quel momento, abbiamo più vescovi che condividono il medesimo titolo episcopale, ma solo uno conserva l’ufficio e i diritti e doveri conseguenti. Questa distinzione ha il pregio di chiarire la differenza fra lo stato giuridico del vescovo che esercita il proprio ufficio da quello del vescovo che ha rinunciato: il quale conserva il titolo dell’ordinazione e le prerogative connesse alla consacrazione episcopale, ma perde i diritti e doveri collegati all’ufficio (questo vale anche per il vescovo di Roma che rinuncia, anche se la prassi seguita in età contemporanea ha invece inventato la stravagante figura di «papa emerito», canonisticamente aberrante).

La linea di prevenire l’ordinazione di vescovi titolari è stata rafforzata quando nel 1976 si è deciso di ordinare i vescovi coadiutori con diritto di successione col medesimo titolo per cui erano effettivamente consacrati, ossia l’ufficio di sostenere un vescovo diocesano pleno iure, verosimilmente e inequivocabilmente destinato a lasciare la cura pastorale.

Questo sistema si presenta appropriato, ma ha il difetto di non includere i vescovi che sono chiamati a svolgere uffici che non hanno pertinenza con la missione pastorale direttamente rivolta alla cura di una determinata diocesi: è il caso dei vescovi ausiliari (di quello effettivamente titolare), di quelli preposti agli uffici della Curia romana e in genere dei nunzi (che sono tutti vescovi titolari di diocesi fittizie).  La soluzione più congruente potrebbe essere quella di attribuire loro il titolo dell’ufficio per cui sono consacrati, senza continuare a ricorrere al sistema del titolo fittizio, che salva la forma ma tradisce la sostanza. Il titolo della consacrazione episcopale è infatti collegato all’ufficio svolto nel servizio a una porzione determinata del popolo di Dio, sulla base del quale si realizza la loro incorporazione nel collegio episcopale e di conseguenza la comunione col servizio alla Chiesa universale. L’idea di ordinare necessariamente vescovi i prelati di curia o i nunzi corrisponde a una visione istituzionale della Chiesa come soggetto giuridico simile agli Stati, che si fonda su ragioni storiche che potrebbero tranquillamente essere lasciate.

Questa breve ricostruzione schematica lascia volutamente ai margini gli elementi collegati alla «dignità del titolo», quali l’attribuzione di insegne, stemmi, abiti e altri titoli onorifici, che storicamente accompagnano l’ordinazione sacramentale e l’attribuzione di incarichi particolari[6], e non solo in ambito ecclesiastico. Il retaggio storico millenario ci racconta di vescovi conti, cardinali principi, papi re. Le «prerogative del titolo» erano strettamente collegate alla percezione di redditi beneficiali e all’esercizio di poteri giurisdizionali, riconosciuti anche attraverso appellativi che richiamano l’«eccellenza», l’«eminenza», la «santità» del ruolo. Ancora oggi il conferimento del sacramento dell’ordine attribuisce il titolo di «don», e non pochi apprezzano di essere poi additati come «Monsignori», a prescindere dall’effettiva eccellenza.

Le esigenze di una riforma rispettosa dei principi conciliari spingerebbero ad abbandonare incrostazioni storiche che riflettono l’immagine di una Chiesa che ha difficoltà a stare al passo coi tempi. I titoli che differenziano i «nobili» dal «popolo», e i «laici» dai «chierici», e fra questi ultimi i «don» dai «mons.» e le «eccellenze» dalle «eminenze», parafrasano una concezione gerarchica mondana – fatta di divise, medaglie, stemmi e onori – non propriamente evangelica. «Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli». I complimenti piacciono: i professori universitari sono «Chiarissimi», i Rettori «Magnifici», i Prefetti «Eccellenti», i deputati «onorevoli», e così via. Sono però vanità mondane senza fondamento evangelico, che la Chiesa dovrebbe avere il coraggio di abbandonare, testimoniando così di non essere attaccata al passato, ma di volere guardare al futuro.

Come accennato, certi cambiamenti nascono dalla consapevolezza ecclesiologica emersa durante l’ultimo Concilio. La «Congregazione del cerimoniale» è stata soppressa nel 1967, anche se la Curia romana fatica ad abbandonare lo schema istituzionale della burocrazia degli Stati dell’ancien regime. Questa mentalità gerarchica – intesa nel senso peggiore del termine – è spesso replicata nelle curie diocesane, e perfino nelle parrocchie. Le celebrazioni liturgiche e l’uso degli spazi sacri continuano a esprimersi con simbologie antiche, incomprensibili ai più, fatte di precedenze cerimoniali e titoli onorifici che raccontano una Chiesa non ancora estranea a una mentalità pagana, che presta molta attenzione alle forme e non sempre alla sostanza.

I simboli invece parlano da soli. E i cambiamenti hanno bisogno di simboli. Il 13 novembre 1964 Paolo VI depose sull’altare la tiara con cui era stato incoronato, Giovanni Paolo I non si fece incoronare, ma nel suo stemma figurava ancora la tiara, come avvenne anche per Giovanni Paolo II. Benedetto XVI invece la tolse dallo stemma, sostituendola con una mitra, così come ha fatto Francesco. Molti gesti dell’attuale vescovo di Roma sottolineano il collegamento del primato petrino con la cura pastorale della diocesi di cui ha il titolo (non a caso, elettivo), e per il quale presiede la cura della Chiesa universale.

La Curia resiste a convertirsi. Forse, su quel versante non si è ancora raggiunta la maturità sufficiente per superare l’attenzione alle precedenze e onorificenze. La Chiesa vista dalla curia appare ancora una potenza regale, e così ci troviamo a discutere di «arcivescovo ad personam», avere «Arcidiocesi» senza metropolita, e chiese sempre più vuote.


[1] In linea disciplinare, il titolo di «Arcivescovo» spetta al titolare di una «Arcidiociesi», ossia una sede episcopale metropolitana, che esercita alcune prerogative nei confronti delle diocesi suffraganee che costituiscono la medesima provincia ecclesiastica. Esistono però anche «arcidiocesi» non metropolitane.

[2] Esistono anche altre «Chiese particolari» diverse dalle diocesi, ad esempio prelature e abazie territoriali. Molta discussione è avvenuta sulla qualificazione delle prelature personali quali Chiese particolari assimilabili alle diocesi, e sugli Ordinariati militari. Mi pare che la conclusione, allo stato dell’arte, sia che le prime non sono Chiese particolari, mentre gli ultimi sono equiparabili a diocesi personali (almeno sulla base del dato normativo, che a mio modesto parere ha forzato l’interpretazione più ragionevole, che andrebbe in senso diverso). Possono anche essere costituite come Chiese particolari porzioni del popolo di Dio non costituite come diocesi, la cui cura pastorale è attribuita a un vicariato o prefetto apostolico, che le governano in nome del Sommo Pontefice, senza essere necessariamente vescovi.

[3]Siccome i presbiteri sono considerati collaboratori del vescovo, non è escluso che questi possa svolgere la propria missione anche senza collaboratori.

[4] La non esistenza può essere dovuta a varie cause. Alcune diocesi fittizie erano quelle territorialmente collocate «in partibus infidelium», ossia in luoghi senza popolazione cristiana; in altri casi si tratta di diocesi soppresse, o anche di sedi istituite ad hoc. In sostanza, ai vescovi titolari è affidata una missio canonica che presuppone l’ordinazione episcopale ma non anche la potestà di giurisdizione che caratterizza l’ufficio del vescovo diocesano. In forza dell’ordinazione, costoro godono dei privilegi e degli onori dei vescovi diocesani, prendono parte con voto deliberativo ai concili e appartengono alla Conferenza episcopale del territorio dove svolgono l’ufficio. Attualmente ci sono 2.338 sedi titolari, e 1.312 vescovi titolari (mia elaborazione dai dati da catholic-hierachy.org, 15 gennaio 2022).

[5] Nella storia della Chiesa si registrano circostanze molto articolate. L’ordinazione episcopale in linea di massima dovrebbe legare perennemente un vescovo alla comunità che serve. Ci sono state tuttavia e tuttora ci sono molte eccezioni a questa regola, specialmente quando si è accettata la possibilità di trasferire un vescovo da una diocesi a un’altra, facendo così seguire il titolo dell’ordinazione all’ufficio, e certamente da quando i vescovi sono chiamati a rinunciare al raggiungimento del 75mo anno di età. Per una migliore visione dei termini della questione, si può vedere K. Mörsdorf, Die Entwicklung der Zweigliedrigkeit der kirchlichen Hierarchie, in Mūnchener Theologische Zeitschrift, 1952, pp. 1-16 (in italiano in K. Mörsdorf, Fondamenti del diritto canonico, a cura di S. Testa Bappenheim, Venezia, Marcianum, 2008, pp. 235 ss.), V. De Paolis, Nota sul titolo di consacrazione episcopale, in Ius Ecclesiae, 2002, pp. 59-79.

[6] Sui quali vedi qui

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