La Regione Lombardia nel 2005 emanò la legge urbanistica (materia di competenza regionale) sul governo del territorio, modificata più volte nel tempo. Nel 2015 venne aggiunta una parte relativa alle “attrezzature religiose”. L’intento di limitare la libertà di culto attraverso il governo del territorio non era affatto nascosto: i giornali dell’epoca la battezzarono, senza smentite, “Legge anti moschee”.
Com’è noto, la legge italiana prescrive che la pianificazione urbanistica locale tenga conto dei bisogni religiosi, e quindi i Comuni devono programmare la presenza di idonei edifici di culto, che nel linguaggio urbanistico si chiamano “attrezzature religiose” ( e nella legge statale “attrezzature di interesse comune” e “opere di urbanizzazione secondaria”), secondo indicazioni stabilite dalle singole Regioni.
La legge lombarda dedica quattro articoli specifici a questa materia. Il primo articolo (art. 70) stabilisce una discutibile gradazione della libertà religiosa, sancendo innanzitutto il principio per cui Regione e comuni concorrono a promuovere la realizzazione di “attrezzature di interesse comune destinate a servizi religiosi” svolti da enti di culto della Chiesa cattolica. Solo in un secondo momento questo principio è esteso anche agli “enti delle altre confessioni religiose con le quali lo Stato ha già approvato con legge la relativa intesa ai sensi dell’articolo 8, terzo comma, della Costituzione”, con una limitazione (quella di avere già una legge stipulata sulla base di intesa) già sanzionata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 63 del 2016, e che ha portato la Regione ad aggiungere la precisazione per cui “Le disposizioni del presente capo si applicano altresì agli enti delle altre confessioni religiose”. Ovviamente, sarebbe stato più corretto non fare distinzioni fra religioni sin dal primo momento, ma accontentiamoci del risultato.
La legge lombarda precisa poi che gli enti in questione, per poter fruire delle disposizioni regionali, “devono stipulare una convenzione a fini urbanistici con il comune interessato” e che tali convenzioni devono prevedere espressamente “la possibilità della risoluzione o della revoca, in caso di accertamento da parte del comune di attività non previste nella convenzione”. Inoltre, le aree che già accolgono “attrezzature religiose” e quelle che sono destinate ad accoglierle, devono essere oggetto di un “Piano per le attrezzature religiose” separato da quello adottato per gli altri servizi di urbanizzazione secondaria, in assenza del quale è vietato “installare nuove attrezzature religiose”. Tale Piano deve essere adottato valutando una serie di elementi urbanistici, quali la presenza di strade di collegamento e parcheggi adeguatamente dimensionate, servizi igienici, congruità architettonica con le caratteristiche peculiari del paesaggio lombardo, e anche la realizzazione di un impianto di videosorveglianza esterno all’edificio, con onere a carico dei richiedenti, che ne monitori ogni punto di ingresso, collegato con gli uffici della polizia locale o forze dell’ordine (anche quest’ultima parte è stata naturalmente già dichiarata incostituzionale).
Inoltre, seguendo la giusta esigenza di partecipazione popolare, la legge prevede che nel corso del procedimento per la predisposizione del Piano, vengano acquisiti i pareri di organizzazioni, comitati di cittadini, esponenti e rappresentanti delle forze dell’ordine oltre agli uffici provinciali di questura e prefettura al fine di valutare possibili profili di sicurezza pubblica e precisa sussistere “la facoltà per i comuni di indire referendum nel rispetto delle previsioni statutarie e dell’ordinamento statale”.
E’ evidente che la legge subordina l’effettiva presenza di luoghi di culto alla discrezionalità delle autorità locali, che possono semplicemente non adottare il Piano richiesto per impedire di fatto l’installazione di attrezzature religiose, ovvero chiedere adempimenti urbanistici troppo onerosi, o anche addurre pretesti urbanistici – ad esempio, l’insufficienza di parcheggi – per impedire l’esercizio della libertà religiosa.
Il sacrosanto ricorso alla partecipazione popolare relativa a scelte di governo del territorio, viene peraltro enfatizzato con la discutibile possibilità di procedere ad un referendum popolare, che in realtà non può non avere conseguenze sull’esercizio del diritto di libertà religiosa. Col risultato paradossale di mettere nelle mani del popolo – che è sovrano nelle forme e nei limiti previsti dalla Costituzione – l’arbitrio su libertà e diritti fondamentali intoccabili (ed infatti anche questa possibilità è stata già considerata incostituzionale).
La Corte costituzionale è tornata sulla legge lombarda con la sentenza depositata il 5 dicembre 2019 (n. 249), che in realtà non fa altro che ribadire principi noti. In primo luogo, che il libero esercizio del culto è un aspetto essenziale della libertà religiosa protetto dall’art. 19 Cost., che “va dunque tutelato, e va assicurato ugualmente a tutte le confessioni religiose, a prescindere dall’avvenuta stipulazione o meno dell’intesa con lo Stato e dalla loro condizione di minoranza”. In secondo luogo, che “la libertà di culto si traduce anche nel diritto di disporre di spazi adeguati per poterla concretamente esercitare” e che questo comporta un duplice dovere a carico delle autorità pubbliche: quello di prevedere e mettere a disposizione spazi pubblici per le attività religiose, e verificare che non si frappongano ostacoli ingiustificati all’esercizio del culto nei luoghi privati e che non si discriminino le confessioni nell’accesso agli spazi pubblici.
In sostanza, le Regioni possono governare l’edilizia di culto in termini esclusivamente urbanistici, al fine di garantire la presenza delle necessarie “attrezzature religiose”, senza limitarne la possibilità concreta, come faceva la legge lombarda, che determinava “una limitazione dell’insediamento di nuove attrezzature religiose non giustificata da reali esigenze di buon governo del territorio” e che perciò comprimeva “in modo irragionevole la libertà di culto”. Le Regioni e i Comuni possono ben
prevedere un Piano speciale dedicato alle attrezzature religiose, purché questo “persegua lo scopo del corretto insediamento nel territorio comunale delle attrezzature religiose aventi impatto urbanistico” allo scopo “di favorire l’apertura di luoghi di culto destinati alle diverse comunità religiose”, e non certo al fine di evitarne la costruzione o l’insediamento. La Corte osserva anche l’irragionevolezza di prevedere standard urbanistici univoci per situazioni che possono anche essere molto diverse: vale a dire che un conto è costruire un grande tempio che produce un significativo impatto ambientale, un altro aprire un piccolo luogo di preghiera; una cosa è chiedere finanziamenti pubblici per costruire un edificio di culto in un’area pubblica, un altro costruire un edificio privato destinato al culto su un’area privata.
L’intervento della Corte costituzionale è oltremodo opportuno, specialmente quando i diritti di libertà rischiano di restare subordinati a istanze demagogiche. La libertà è un bene comune, che non può essere ridotto ad una simbolica “guerra delle moschee” combattuta dalle istituzioni locali ricorrendo a pretesti urbanistici che nascondono reali motivi discriminatori. Come ogni patrimonio comune, la libertà religiosa richiede cura comune e attenzione civica. La Corte costituzionale ha scritto una pagina scontata per gli addetti ai lavori, ma il rischio di derive illiberali è tuttora alto e necessita di una forte vigilanza popolare.
Siate liberi, non irragionevoli!