Quattro cardinali dubbiosi

Il 14 novembre 2016 è stata resa pubblica una lettera che quattro cardinali avevano scritto al papa (e – tanto per non sbagliarsi – mettendone a conoscenza il Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede) il 19 settembre scorso perché facesse chiarezza in merito ad alcuni punti dubbi emergenti dalla lettura di 5 paragrafi dell’Esortazione apostolica post-sinodale Amoris lateitia.
Si dà il caso che proprio in questi giorni stia studiando a fondo questo documento insieme ai miei studenti che frequentano il corso di “Diritto canonico”. Così stamattina ci siamo esercitati provando a rispondere ai cinque dubbi.
Premetto che non abbiamo potuto non constatare come la semplice lettura dei “numeri incriminati” fosse di per sé molto chiara e non desse adito a dubbi. E’ apparso perciò evidente che il vero dubbio dei quattro cardinali suona piuttosto come un dubbio unico: “Santità, hai volutamente scritto cose diverse da quelle che avevano sostenuto i tuoi predecessori? Abbiamo capito bene: stai dicendo cose nuove?”
Evidentemente la risposta affermativa pone un problema di continuità rispetto al passato che ai quattro non sembra sopportabile. La risposta negativa è di una tale certezza che i miei studenti hanno percepito la lettera (e la sua pubblica diffusione) non come una vera e propria domanda, ma come una provocazione.

Si sono in primo luogo preoccupati di inquadrare sistematicamente i dubbi dei cardinali. E’ stato semplice verificare che questi ultimi insistono su una piccola porzione dell’intera Esortazione, che nel suo complesso esprime un indirizzo complessivo sulla “Gioia dell’amore” e, dopo 290 numeri, trae qualche conclusione in ordine ad “Accompagnare, discernere e integrare la fragilità” (uno capitolo di 21 numeri: fra questi, sei creano i problemi messi a fuoco). La lettura della parte “incriminata” deve infatti essere sostenuta dalle sezioni precedenti, altrimenti si rischia di considerare quelle affermazioni in senso assoluto, come se non fossero il risultato di un processo molto concreto: una tessera di un mosaico più vasto.

In ogni caso, la lettura del numero 300 offre un’indicazione molto chiara: tanto il Sinodo quanto l’Esortazione NON vogliono esprimere una “nuova normativa generale di tipo canonico, applicabile a tutti i casi”; piuttosto vogliono incoraggiare “ad un responsabile discernimento personale e pastorale dei casi particolari”. Un’attività che appartiene alla coscienza di ciascuna persona. Un’attività che i presbiteri devono accompagnare per aiutare a scegliere senza prescindere dalle esigenze evangeliche di verità e carità. In termini canonici questa si chiama prevalenza del foro interno rispetto al foro esterno. In termini evangelici questa immagine restituisce l’icona di Gesù che salva l’adultera dalla lapidazione che per legge le sarebbe toccata.

Così il numero successivo ricorda la tradizione ecclesiale che impedisce di esprimere una condanna senza possibilità di redenzione a carico di qualsiasi peccatore. La condanna del peccato non comporta necessariamente la condanna del peccatore: in termini giuridici il giudizio negativo sul fatto oggettivo non pregiudica l’imputabilità o la colpevolezza. In termini evangelici Gesù salva il ladro – colpevole – crocifisso accanto a lui – innocente.

Emerge in sostanza una tale centralità del discernimento pastorale da considerare “meschino soffermarsi a considerare solo se l’agire di una persona risponda o meno a una legge o a una norma generale, perché questo non basta a discernere e ad assicurare una piena fedeltà a Dio nell’esistenza concreta di un essere umano”. Il papa “prega di ricordare l’insegnamento di san Tommaso”; i canonisti sanno che esiste un principio giuridicamente rilevante che chiamiamo “equità canonica”, temperato dall’elasticità normativa, che impedisce di trattare i fatti (i comportamenti) solo attraverso la lente morale. Per i padri sinodali uniti al vescovo di Roma, “un Pastore non può sentirsi soddisfatto solo applicando leggi morali a coloro che vivono in situazioni “irregolari”, come se fossero pietre che si lanciano contro la vita delle persone”.

Così – absit iniura verbis – i quattro meschini cardinali appaiono alla mia classe come i sacerdoti di antica memoria, intenti a ricordare le leggi di Mosè, seduti sulla cattedra per giudicare, qualche volta con superiorità e superficialità, i casi difficili e le famiglie ferite. Cercano nella Tradizione scritta quella luce che altrimenti non giunge ai loro cuori.

In questo senso commettono anche qualche errore che persino i miei studenti riescono ad evitare. Ad esempio mischiano le fonti e dimenticano i criteri della loro successione nel tempo. Perché mai il tesoro divino che oggi è compreso alla luce della attuale riflessione ecclesiale dovrebbe essere ristretto nei precedenti canoni ermeneutici? In altre parole, perché Amoris laetitia non potrebbe completare Familiaris conosortio o Reconciliatio et paenitentia (cito questi atti, perché sono quelli che i quattro cardinali richiamano come fonti divergenti nel loro primo dubbio)? In particolare la ricerca della norma canonica assoluta è una tentazione che Francesco evita con accuratezza: Amoris laetitia NON è una norma canonica generale, ma un’esortazione ad intraprendere una strada evangelica diversa da quella imboccata in precedenza.

La questione più prettamente giuridica appare nel terzo dubbio. Qui i quattro si chiedono se sia ancora valida l’interpretazione data dal Pontificio consiglio per i testi legislativi il 24 giugno 2000, che ribadiva la legittimità dell’esclusione dalla sacra comunione dei divorziati risposati a mente del can. 915, in quanto soggetti che “ostinatamente perseverano in peccato grave manifesto”. In realtà il dubbio è formulato in modo impreciso, perché i cardinali parlano di “situazione oggettiva di peccato grave abituale” mentre il codice fa riferimento al “peccato grave manifesto”. Non c’è chi non veda come la “abitualità” possa anche essere occulta, e con ciò quaestio finita. Tuttavia, per completezza espositiva, è opportuno considerare che la richiamata Dichiarazione muoveva dalla necessità di determinare con maggiore precisione i termini che integrerebbero la fattispecie soggettiva (non oggettiva) di coloro che “ostinatamente perseverano in peccato grave manifesto”. La presenza di una situazione oggettiva di peccato grave non è infatti sufficiente, occorre che sia presente anche l’ostinazione. Vale a dire una persistenza irragionevole ed inopportuna: che può essere valutata in termini oggettivi, ma non senza tener conto degli elementi soggettivi.
Inoltre, sarebbe un errore considerare una funzione prevalentemente penale del canone in parola, che ha invece un ruolo di garanzia della santità del sacramento. Il riferimento scritturale riferito nelle medesima Dichiarazione (I Cor. 11, 27-29) si muove peraltro allo stesso tempo su due piani distinti. Da un lato ricorda che “chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore”, e dall’altro lato ammonisce che “ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna”. Come si vede, la corretta interpretazione canonica non può non tenere conto del can. 916, che ammette alla comunione anche colui che è consapevole di essere in peccato grave, purché premetta la confessione sacramentale o ponga un atto di contrizione perfetta, che includa il proposito di confessarsi quanto prima. Insomma, il diritto canonico insiste ampiamente sulla dimensione soggettiva, che travalica con ogni evidenza quella oggettiva, ma soprattutto propone la materia del contendere in termini molto più ampi della sola questione dei “divorziati risposati”.

Molto si potrebbe ancora dire, ma più urgenti questioni richiamano la nostra attenzione. I quattro anziani cardinali che ostinatamente si concentrano sul peccato dei divorziati risposati – mettendo così a dura prova la pazienza dei fedeli – non sanno che cosa si perdono a non gustare la gioia che nasce dall’amore che si vive nelle famiglie, che è giubilo anche della Chiesa.

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