Con una sentenza pubblicata ieri, la Corte di Cassazione a sezioni unite esprime la sua attesa decisione sulla nota controversia relativa all’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche.
La mia opinione a questo proposito è nota da tempo: dal punto di vista giuridico sostenere l’obbligo legale di esposizione del crocifisso è una sciocchezza madornale. La questione è sporcata da strumentalizzazioni ideologiche e confessionali che rendono il tema più politico che giuridico, aggiungendo valore simbolico a un tema di per sé già … simbolico.
Tuttavia, la complessità sociale provoca spesso ritorni di fiamma e apre e chiude questioni che il buon senso avrebbe già risolto per conto suo, e così anche la Corte di cassazione ha dovuto fare i conti con queste alterne vicende, cercando questa volta di fare sintesi, data la precedente incertezza giurisprudenziale.
Devo subito dire che siamo di fronte a una sentenza metodologicamente perfetta. La Corte in questo caso ha saputo affrontare il tema senza sbavature e dando la giusta attenzione non solo ai precedenti giurisprudenziali, ma anche alle diverse opinioni della dottrina. Il testo è ben scritto, persino scorrevole: tanto che ne consiglio la lettura a tutti gli studenti e le studentesse, che così potranno farsi un’idea precisa di che cosa significhi giudicare di giudicati e assumere la responsabilità dell’interpretazione.
A mio parere il punto centrale di questa pronuncia sta tutto nella responsabilità che essa si è assunta di entrare in un «contesto di confronto, di dialogo e di contraddittorio tra le parti, che consente alla Corte di legittimità di svolgere il suo ruolo con quella prudenza “mite” che rappresenta un connotato del mestiere del giudice» (p. 19 del testo pubblicato sul sito della Corte di cassazione). In altre parole, la Corte ha giudicato partendo dal diritto vigente per decidere sulla base di quello vivente, e lo ha fatto sotto l’ombrello di una sensibilità mite. Dal mio punto di vista è un’ottima cosa. Resta tuttavia da domandarsi se l’esito di questo esercizio sia giuridicamente efficace.
Mi spiego meglio: una sentenza di 65 pagine non si presta a letture veloci e sufficientemente ponderate, specialmente da parte di chi non possiede gli strumenti del mestiere. Mi ha colpito che la Conferenza episcopale abbia cantato vittoria, dimostrando di avere letto solo la parte che ammette la possibilità di esporre il simbolo religioso. Non mi ha stupito che altri cattolici – più competenti in materia giuridica – abbiano invece colto l’aspetto problematico della decisione, reclamando un veloce intervento del legislatore, così da cambiare il diritto vigente, promuovendo un’interpretazione a mio parere stravagante di quello vivente. In altre parole, nei primi commenti prevale la tendenza a strumentalizzare la sentenza, facendole dire anche ciò che non dice.
Proprio per contenere i dubbi interpretativi e cercare di restare nel seminato, la Corte individua d’ufficio i punti più importanti di ciascuna sentenza e li pubblica sotto forma di «massime» (si chiamano così proprio perché esprimono il punto più importante, quello che non va dimenticato). Nel nostro caso la prima è questa: «In base alla Costituzione repubblicana, ispirata al principio di laicità dello Stato e alla salvaguardia della libertà religiosa positiva e negativa, non è consentita, nelle aule delle scuole pubbliche, l’affissione obbligatoria, per determinazione dei pubblici poteri, del simbolo religioso del crocefisso». Posto questo primo mattone ineludibile, si prende atto che la norma regolamentare (del 1924) «che comprende il crocefisso tra gli arredi scolastici» deve essere interpretata (con mitezza) «nel senso che la comunità scolastica può decidere di esporre il crocefisso in aula». Questa possibilità – dice la Corte, senza meglio spiegare come – deve essere valutata (da chi?) nel «rispetto delle convinzioni di tutti i componenti della medesima comunità, ricercando un “ragionevole accomodamento” tra eventuali posizioni difformi».
Chi mi conosce sa che sono un fanatico del «ragionevole accomodamento». Ho scritto un libro sulla gestione dei conflitti interculturali e lo prendo in considerazione in maniera – mi pare – abbastanza puntuale. Si tratta di uno strumento potente di gestione mite delle controversie che esalta il livello di base, specialmente se adottato col consenso dalle parti in contrasto. Bisogna però riconoscere che – allo stato – la sua adozione nell’ambito di una comunità scolastica non appare di facile soluzione pratica. Se è vero che la Corte di cassazione deve limitarsi a esprimere un principio di riferimento univoco che i giudici di merito sono tenuti a rispettare, è anche vero che la soluzione pratica della questione non è ancora stata raggiunta.
In un passaggio della sentenza, ad esempio, si legge che la presenza del crocifisso deve emergere da una richiesta degli studenti (di ciascuna classe rispetto alla propria aula (vedi p. 40)), ma subito dopo si precisa che la decisione va assunta «con la partecipazione di tutti i soggetti coinvolti e con il metodo della ricerca del più ampio consenso» (p. 36). L’individuazione di «tutti i soggetti coinvolti» non è agevole (oltre agli studenti – cui sarebbe attribuito il ruolo attivo, ma che in linea di massima sono bambini e bambine, ragazzi e ragazze non ancora alle scuole superiori – i genitori? Gli insegnanti? Il personale della scuola?) e anche la ricerca del più ampio consenso non sembra una strada facilmente percorribile, specialmente in un ambiente abituato a decidere per mere votazioni, e quindi soggetto alla poco mite decisione della maggioranza.
In un altro passaggio la Corte di cassazione suggerisce la possibilità di esporre anche altri simboli religiosi diversi dal crocifisso, confidando sul fatto che sui muri delle scuole questi riflettono uno stato di passività (sottolineato da Del Giudice in termini teologicamente rilevanti) e non di identificazione identitaria. La passività e neutralità dei simboli religiosi costituisce, per i giudici, un postulato indefettibile del loro ragionamento. Se non fossero passivi non potrebbero essere esposti.
L’idea di fondo alla fine è semplice. Di per sé, la funzione dei muri è quella di restare bianchi. Tuttavia, essi possono essere utilizzati anche per rendere l’ambiente più piacevole, secondo i gusti di chi vive quegli spazi. I muri delle aule scolastiche possono svolgere una funzione utile accogliendo accessori funzionali allo svolgimento della vita di chi utilizza quell’aula, compresi simboli religiosamente rilevanti, purché restino passivi ed esprimano la mitezza dei valori scolastici: dialogo, ascolto, uguaglianza, tolleranza, amicizia, rispetto, educazione. Si tratta quindi di avviare una vera e propria rivoluzione sociale, in quanto la strada da compiere perché questa realtà ideale si concretizzi davvero mi pare abbastanza lunga. Ad essere puntigliosi, i crocifissi che adesso sono appesi ai muri delle aule scolastiche andrebbero tolti, Magari in attesa che la classe chieda di affiggerli, ma per onorare la mitezza non sarebbe bello fare finta di niente, o anche insistere sul fatto che la loro esposizione non è discriminatoria. Qui il discorso si fa un po’ più complesso: diciamo che la Corte ha ritenuto che un insegnante non può ritenersi discriminato se gli si fa fare lezione in un’aula “crocifissa”, purché quel crocifisso sia stato esposto su richiesta degli studenti e al termine di un percorso che prenda in considerazione anche le sue ragioni contrarie. In altre parole, l’aula non è del docente, e questi non può imporre la sua opinione ai propri studenti (il professore che ha dato vita alla causa, infatti, non può ottenere il risarcimento del danno che aveva richiesto, in quanto la Corte non ritiene che sia stato discriminato, ma al tempo stesso cadono le misure disciplinari che gli avevano comminato, dato che quel crocifisso là ci stava senza essere stato prima espletato un percorso partecipativo).
Queste interpretazioni un po’ a senso unico dimostrano che abbiamo ancora bisogno di laicità, che come la mitezza appare più proclamata che praticata.
Per crescere in laicità e mitezza ci sarebbe bisogno di una formazione universitaria che dia più spazio alle capacità di mediazione nonviolenta dei conflitti. Alcune esperienze pilota hanno aperto la strada (vedi qui e qui), altre si sono scontrate con una realtà antropologica complicata, ma nel complesso mi pare che la Corte di cassazione abbia ragione a insistere sul coinvolgimento delle comunità scolastiche a partire dagli studenti e dalle studentesse. Probabilmente discutere con mitezza di questi temi aiuterà a far perdere al “crocifisso scolastico” la natura divisiva che ancora lo caratterizza. Chi vivrà, vedrà.