Gestis verbisque: come buttare il bambino con l’acqua sporca

La Nota del Dicastero per la dottrina della fede del  3 febbraio 2024  affronta il problema concreto dell’illegittimità dell’amministrazione di un sacramento determinata dal mancato rispetto delle formule e della materia prescritta dal diritto. In termini giuridici, si tratta della fattispecie richiamata nel can. 846, § 1. 

Tuttavia, la Nota inserisce questa fattispecie nelle ipotesi di invalidità del sacramento, evocata nel can. 840. Inoltre, la questione è proposta nei termini della cura e della diligenza che i ministri dei sacramenti devono prestare nella loro funzione di presidenza dei riti, riferendosi perciò solo ai sacramenti celebrati da «ministri ordinati» – come risulta evidente dal complesso dei richiami effettuati nella Nota – dimenticando che i ministri (cosiddetti “secondari” dei sacramenti, poiché il ministro è sempre Cristo) non sono sempre e solo «ministri ordinati».

La lettura e l’interpretazione dell’intera Nota inducono pertanto una percezione di latente clericalismo ed eccessivo formalismo. Nell’introduzione si pone un problema concreto, ossia: la potenziale nullità di un battesimo amministrato con formule diverse da quelle prescritte, tali da non integrare -da parte del ministro secondario – l’intenzione propria del battesimo, che è quella di incorporare il battezzato nella Chiesa. Come vedremo, questo problema sembra essere stato risolto nel passato dichiarando la nullità del battesimo – ipotesi non prevista dal Codice – che il Dicastero intende adesso prevenire offrendo una soluzione formativa che, nel precisare alcuni aspetti teologici e pastorali, finisce però per confondere le idee e imbarazzare chi muove da conoscenze giuridiche.

Che fine ha fatto il diritto canonico nella Chiesa?

La Nota procede con passo incerto fra paternalismo accomodante e severo. Da un lato ammette la necessità di trovare mediazioni pastorali che permettano di inverare il rito in maniera più significativa di quanto emerge dai testi liturgici, e da un altro lato incolpa dei danni procurati da «ministri ordinati» poco attenti di ricevere una scarsa formazione, che sarebbe la causa dell’incapacità di celebrare comme il faut. Per ovviare al problema così individuato, il Dicastero ricorda ai Vescovi «alcuni elementi di carattere dottrinale in ordine al discernimento sulla validità della celebrazione dei Sacramenti, prestando attenzione anche ad alcuni risvolti disciplinari e pastorali».

Siamo davanti a un’ottima intenzione del Dicastero, che tuttavia nella parte esplicativa affoga in una serie di incertezze. Altri hanno già messo in luce alcuni nodi teologici; qui mi soffermo su quelli di natura giuridica, diversi da quelli già messi in evidenza da altri canonisti[1].

Partiamo dal presupposto giuridico fondamentale: i sacramenti sono stati istituiti da Cristo e affidati alla Chiesa quali segni e mezzi per esprimere e irrobustire la fede, rendere culto a Dio e santificare: pertanto concorrono a iniziare, confermare e manifestare la comunione ecclesiastica (can 840). In questa prospettiva unitaria (ossia: concorrono tutti a manifestare la comunione ecclesiastica), ogni sacramento ha una funzione propria e andrebbe perciò trattato a sé stante. La Nota invece fa un po’ di confusione e non distingue le diverse tipologie soggettive dei ministri secondari del sacramento e, benché muova dal battesimo, esprime considerazioni generiche apparentemente riferibili a tutti i sette sacramenti.

Questi sono peraltro collocati nella sola luce della celebrazione liturgica, quando invece sono anche veri e propri atti giuridici, liturgicamente disciplinati in modo molto differenziato, tale da ammettere una certa diversità di forme e formule (e ministri): queste differenze sono volute proprio per allargare quanto più possibile l’elargizione della grazia salvifica propria di ciascun sacramento. Il diritto canonico, che pure rinvia all’uso appropriato dei libri liturgici, pertanto presenta una serie di deroghe soggettive e oggettive che la Nota sembra ignorare. La disciplina giuridica dei sacramenti non può essere sottovalutata: serve per assicurare che la grazia non sia imbrigliata nelle formule né messa nelle mani dei singoli, siano essi i ministri del sacramento o coloro che li ricevono. Nemmeno la Chiesa è proprietaria della grazia sacramentale, che elargisce in nome del suo Signore scegliendo parole e gesti che significano in concreto qualcosa altrimenti invisibile.

I sacramenti vanno perciò chiesti alla Chiesa, che ha il potere di disciplinarli per legge, senza appropriarsene. I fedeli hanno il diritto di riceverli, alle condizioni stabilite dalla legge, e (se i richiedenti sono ben disposti) i ministri non possono negarli (can. 843, § 1).  Insomma, i sacramenti sono veri e propri atti giuridici, tali da costituire relazioni giuridiche caratterizzata da diritti e doveri ben disciplinati, rispetto ai quali i riti si collocano in secondo piano, e certamente non possono condizionarne l’efficacia.  

Siccome si tratta di atti giuridici, le correlate nozioni di liceità, validità, ed efficacia devono essere maneggiate col dovuto rigore giuridico. La liceità riguarda il rispetto delle condizioni stabilite dalla legge, mentre la validità segue la realtà dell’esistenza dei presupposti considerati necessari perché l’atto sia stato realmente compiuto. L’efficacia è quindi una conseguenza della validità e non della liceità. La Chiesa riconosce infatti validi anche i sacramenti illecitamente amministrati. Teologia e diritto non usano qui termini equivalenti: verum, ratum, invalidum, irritum, nullum seguono concetti distinti1. Un atto giuridico valido è sempre efficace, anche se illecito: in particolare, i sacramenti che imprimono un carattere – ossia, modificano uno status giuridico – quando sono validi sono sempre efficaci. Un sacramento celebrato in maniera non rispettosa del rito prescritto è illecito, ma pur sempre valido se presenta gli elementi sostanziali che per legge (e non secondo il rito) lo costituiscono. Se è valido per legge, dispiega la sua efficacia. Le formule rituali – e i correlati gesti – non costituiscono il sacramento, che è comunque un segno della comunione ecclesiale quando amministrato secondo l’intenzione della Chiesa. La nullità si può dichiarare solo in casi eccezionali, ad esempio (nel matrimonio) quando consti la positiva volontà dei ministri (o di uno dei due) di escludere che quell’atto produca i suoi effetti propri.

L’atto «sacramento» integra una relazione giuridica intersoggettiva fra chi lo chiede e chi, in nomine Ecclesiae, l’amministra. Se quest’ultimo non intende celebrare davvero il sacramento richiesto – perciò cambia le formule o usa una materia impropria – commette un illecito anche gravissimo, che può essere sanzionato a norma del diritto, ma se chi lo riceve ignora questa circostanza e conserva la retta intenzione, lo riceve validamente. Ci tornerò fra poco.

Prima desidero ricordare la speciale condizione che caratterizza il sacramento del battesimo. Esso è considerato la porta dei sacramenti, e perciò gode di una particolare presunzione giuridica di validità.  Tanto che chiunque sia mosso da «retta intenzione» lo può impartire. Chiunque significa chiunque: anche un non battezzato, e per integrare la necessaria «retta intenzione» è sufficiente che chi lo riceve e chi lo amministra vogliano realizzare la stessa cosa che la Chiesa vuole significare attraverso il battesimo: ossia entrare nella comunione ecclesiale. Il battesimo incorpora nella Chiesa anche quando chi compie l’atto non segue riti e gesti, o usa la materia, che la Chiesa ordinariamente prescrive. Nel caso del battesimo la legge è talmente larga da ammettere che venga impartito anche a chi non è in grado di chiederlo, e infatti la Chiesa cattolica ammette il battesimo dei bambini, persino dei neonati, che sono certamente incapaci di esprimere la fede necessaria perché il sacramento sia efficace. In questi casi, la fede della Chiesa che accoglie il battezzato supplisce[2]. Se le cose stanno così, come può un mero illecito formale – irrituale – prevalere sulla fede della Chiesa?

I ministri dei sacramenti hanno certamente il dovere di rispettare le condizioni prescritte dalla legge e seguire il rito stabilito dalla Chiesa, ma la loro eventuale disattenzione (anche voluta) non invalida il sacramento chiesto e ricevuto se l’irritualità non incide sull’intenzione di chi lo riceve.  L’incapacità (in senso giuridico) del ministro ordinato di celebrare lecitamente un sacramento (quando ad esempio cambia le formule rituali o usa una materia diversa da quella prescritta), non deteriora o diminuisce il munus sanctificandi che Cristo ha affidato alla Chiesa. Se così non fosse, si concretizzerebbe la paradossale conseguenza di concentrare la forza salvifica del sacramento nell’intenzione del solo celebrante. Ribadisco: modificare formule o gesti prescritti è illecito, ma tale illiceità non ricade sull’efficacia del sacramento: chi lo riceve senza colpa, per così dire, lo riceve bene e gode della grazia relativa. Il ministro dei sacramenti è infatti Gesù Cristo e il sacramento è efficace ex opere operato e il celebrante del rito occupa solo un posto secondario. L’efficacia – grazie a Dio! – non dipende dal ministro.

La questione prende una piega diversa quando sia accertata la mancanza di un elemento che la legge – non il rito – ritiene necessario per la validità dell’atto sacramentale. L’esempio macroscopico riguarda l’assenza, o determinati vizi, del consenso matrimoniale. In questi casi la Chiesa può dichiarare la nullità del sacramento, che tuttavia – quand’anche fosse nullo – può ancora essere convalidato.

Credo sia opportuno sottolineare ancora che il sacramento non è mai un atto unilaterale: non si entra – né si permane – in comunione da soli, né per volontà di un solo uomo. Per questo i ministri secondari agiscono sempre in nomine Ecclesiae, relazionandosi con chi chiede e riceve il sacramento secondo l’intenzione della Chiesa.  Come già detto, specialmente nel caso del battesimo, l’intenzione manifestata dal battezzando non può essere condizionata dalla diversa intenzione voluta dal ministro secondario, a meno che questi non la manifesti in concreto e chiarisca che non vuole attribuire a quei gesti e quelle parole l’effetto che la Chiesa intende. L’intenzione di volere ciò che la Chiesa vuole è una condizione sempre necessaria in chi chiede e riceve il sacramento; nel caso della penitenza, oltre all’intenzione, è chiesta anche la contrizione; nel caso del matrimonio, è richiesta anche una conoscenza minima del sacramento stesso (che si presume dopo la pubertà).

Così è secondo la legge.

La Nota in commento vuole opportunamente arginare gli abusi liturgici del clero, impreparato o comunque abusante, ma in realtà formula un collage di citazioni che rischiano di confondere il quadro di riferimento che la Tradizione ha conservato affinché i sacramenti possano essere segni efficaci della Grazia salvifica, oltre i riti e le intenzioni di chi li officia.  Del resto, le intenzioni non si possono processare. Perciò esistono responsabilità proprie dei ministri (non solo ordinati) che volutamente non seguono il rito prescritto, e che tuttavia – per grazia di Dio! – non incidono sulla validità della celebrazione che la Chiesa vuole. I sacramenti non appartengono alla Chiesa, e tanto meno al suo clero: non sono gesti magici e sarebbe un errore marginalizzarli alla «bellezza del celebrare cristiano»: sono molto di più. Perciò andrebbero trattati con maggiore cautela. Gli abusi, com’è noto, creano dipendenza. Occorre prevenirli senza però buttare l’acqua sporca con tutto il bambino; questo è un rimedio peggiore del male


[1] Vedi Umberto Rosario Del Giudice e Stefano Sodaro, che muovono però da una prospettiva diversa rispetto a quella istituzionale che invece cerco di privilegiare, secondo la prospettiva periferica che caratterizza la mia riflessione sul diritto canonico contemporaneo.

[2] Più in generale, la Chiesa supplisce eventuali carenze di potere tanto nel foro esterno che interno (can. 144, §1), con esplicito riferimento a quello richiamato per i soggetti che conferiscono il sacramento della confermazione e della penitenza e gli assistenti qualificati al matrimonio (com’è noto, in questo caso i ministri sono i coniugi stessi).

  1. Traggo queste precisazioni da A. Montan, Gli atti sacramentali come atti giuridici, in L’atto giuridico nel diritto canonico, Città del vaticano, 2002, pp. 43-64, cui rinvio per altri riferimenti di cui pure mi sono servito in questa breve nota di commento. ↩︎

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