Diritto canonico e teologia: ancora separati in casa?

Louis Bouyer scriveva che nella Chiesa cattolica la teologia e il diritto canonico sono “separati in casa”. Infatti, soprattutto nell’epoca della riforma del Codice del 1917 – quest’anno corre il centenario – parecchi canonisti temevano che la teologia potesse “inquinare” il diritto canonico. Una preoccupazione che veniva peraltro da anni precedenti e che aveva condotto a distinguere fra  “canonisti laici” – molto giuristi e poco teologi – e “canonisti curiali” – poco giuristi e molto (troppo?) teologi.

In realtà diritto e teologia sono stati per secoli due facce della medesima medaglia. Questa sorta di immedesimazione non ha però retto l’urto del tempo che passava. Così il diritto ha creduto di diventare adulto quando si è separato dalla teologia. La secolarizzazione nasce esattamente da questa separazione fra teologia e diritto, che l’Occidente ha maturato forse a partire dallo stesso Graziano, o forse da Grozio (o da Marsilio da Padova). Fatto sta che il diritto oggi si percepisce come un frutto del potere dello Stato laico, senza la necessità di rapportarsi a Dio. Per il diritto laico la teologia non serve, anche se molti concetti politici sono figli dell’argomentazione teologica (come insegna Schmitt).

Anche se può sembrare paradossale, pure il diritto canonico ha vissuto questa medesima separazione. Nel corso dei secoli e con modalità diverse ha cercato di giustificare sé stesso e la sua stessa funzione senza raccordarsi alla teologia. Perciò ha maturato concetti giuridici che pian piano hanno costruito il diritto canonico come un succedaneo dei diritti statuali. La stessa Chiesa si è consolidata in termini istituzionali come una societas iuridice perfecta: un’istituzione di derivazione divina potenzialmente governabile anche senza popolo.

Questa dimensione autoreferenziale ha trovato un suo punto di forza con la promulgazione nel 1917 del primo Codice di diritto canonico. Un apparato nato vecchio, che non ha retto l’urto dell’ecclesiologia conciliare, e che ha visto finora naufragare i tentativi di ricucire la separazione fra diritto canonico e teologia, che tuttora caratterizza i vigenti Codici (del 1983 per le Chiese latine e del 1990 per quelle orientali). Nella realtà dei fatti diritto e teologia rimangono separati in casa.

Negli ultimissimi anni alcuni teologi hanno provato a riprendere la strada della conciliazione, sorretti anche da qualche canonista curiale. I canonisti laici sono invece rimasti per lo più a guardare, forse perché non hanno (abbiamo?) sufficienti competenze teologiche. Così nel muro che separa diritto canonico e teologia si è aperta qualche finestrella, talvolta una porticina, stretta però sull’analisi di questioni metodologiche e dommatiche. In buona sostanza temi principalmente accademici, come se il diritto e la teologia dovessero incontrarsi sui libri o nei convegni anziché per le strade, nelle piazze e nelle chiese. Insomma, nella vita concreta.

Non voglio entrare in munere alieno; proinde ex parte theologiae sileo. Ritengo però che qualcosa si possa dire (e fare) per aiutare il diritto canonico contemporaneo a recuperare la sua centralità nella vita della Chiesa riconciliandosi con la teologia. Credo che questa responsabilità gravi soprattutto sui canonisti laici, che meglio dei loro Colleghi cosiddetti “di curia”, possono avvertire i segni dei tempi. Non certo perché nelle curie o nelle sacrestie non si possa ugualmente respirare l’aria del tempo presente, ma poiché in questi luoghi – come nei seminari o nei tribunali ecclesiastici – si crea spesso un clima più asettico e si seguono linee di pensiero non sempre adatte a cogliere le sfide del tempo presente.

Un primo passo verso la riconciliazione fra diritto canonico e teologia dovrebbe comprendere la conoscenza pratica del diritto canonico da parte del popolo di Dio. Guardare il diritto canonico prevalentemente dalle pagine dei libri può causare forme anche gravi di strabismo; perché trasforma il diritto in un oggetto di studio dimenticando che si tratta essenzialmente di regole pratiche. I fedeli cattolici invece ignorano il diritto canonico, anche quando conoscono il catechismo. La disobbedienza per ignoranza porta al risultato poco edificante di una Chiesa spesso incapace di seguire le regole che pure si è data. I casi paradigmatici degli abusi sessuali e dell’amministrazione dei beni sono sotto gli occhi di tutti, e spesso sono il frutto di disobbedienze canoniche.

Il secondo passo potrebbe consistere in una più accorta distinzione fra diritto e morale. Quest’ultima da troppi secoli copre uno spazio che dovrebbe invece essere lasciato al diritto canonico. Che si differenzia dal diritto degli Stati perché persegue – benché in modo laico – una funzione spirituale, ma pur sempre propone regole pratiche che servono a salvarsi l’anima. Perciò sono regole storicamente contingenti, variabili nel tempo e nello spazio. Il diritto canonico non deve esprimere verità teologiche indiscutibili. Bisogna liberarlo dal peso improprio di strumento valoriale. Il popolo di Dio si fonda sulla Sua Parola. Lì trova tutto ciò che serve. Il diritto dà un aiuto in più per non perdersi. Questo è un punto centrale. Il diritto canonico – a differenza dei diritti statali – ha uno scopo teleologicamente (e, perciò,  teologicamente) rilevante. Alcuni concetti propri del diritto canonico (quali flessibilità, elasticità, equità canonica, misericordia e perdono) fanno parte della cassetta degli attrezzi del canonista perché li utilizzi in senso giuridico e non morale.

Un terzo passo consiste in un’attenta valorizzazione del magistero giuridico di papa Francesco, che sta usando il diritto con molta attenzione alla teologia. Egli ha utilizzato sia atti normativi tradizionali (ad esempio, riformando il Codice) sia atti nuovi (ad esempio, le Esortazioni apostoliche) piegando il diritto alle esigenze della vita ecclesiale. Ecclesiologia e pastorale sono state così tradotte in una correttissima linguam canonisticam, dimostrando che diritto e teologia possono vivere una relazione reciprocamente ancillare. Troppo spesso la Chiesa ha vissuto una fissazione per l’ortodossia dimenticando l’ortoprassi. “Fate quello che dico, ma non quello che faccio” è uno slogan sulla bocca di troppe persone che si sono allontanate da una Chiesa talvolta poco credibile. Per superare questa frattura bisogna riconnettere “credere” e “fare”.  I canonisti possono fare molto se scendono nelle strade e nelle piazze e – senza dimenticare le chiese – restituiscono al diritto il suo ruolo pratico, concreto, di strumento utile per convertirsi e annunciare il Vangelo.

 

 

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