L’uscita in Francia del libro di Benedetto XVI e del Card. Robert Sarah Des profondeur de nos coeurs ha riportato all’onore delle cronache la questione del celibato dei preti cattolici. Si tratta di un tema molto dibattuto, sul quale nel corso dei secoli si sono innestate varie interpretazioni e che ancora oggi suscita non poche divisioni. Il divieto di ordinazione di presbiteri sposati – vigente nella sola Chiesa cattolica latina – è stato discusso in termini critici nel recente Sinodo dei vescovi per l’Amazzonia, che si è dichiarato favorevole alla possibilità di ordinare come presbiteri diaconi permanenti anche sposati. Questa eventualità è subìta da alcuni come un affronto alla legge del celibato, erroneamente ritenuta di diritto divino, e comunque un baluardo intoccabile. Per la verità, molti papi anche nel secolo scorso si sono espressi chiaramente a favore della legge del celibato, che tuttavia – come tutte le leggi ecclesiastiche – è senz’altro riformabile. Non voglio qui trattare il tema in modo esaustivo né fondarlo teologicamente. Siccome però sono convinto che il diritto canonico possa aiutare a risolvere molte questioni pratiche – qual è in definitiva questa – desidero fornire uno schema giuridico essenziale per farsi un’idea documentata, priva dell’enfasi sacralizzante con cui tuttora alcuni avvolgono l’esercizio dei ministeri ordinati.
Cominciamo dall’esame delle fonti di rango – per così dire – gerarchicamente sovraordinato, e che costituiscono la chiave di lettura interpretativa delle norme canoniche: vale a dire le norme conciliari. A questo riguardo soccorre il Decreto conciliare Presbyterorum ordinis, che presenta un apposito paragrafo (n. 16) in cui si sviluppa in modo esemplare la dottrina della Chiesa cattolica su questo punto. In primo luogo, il Decreto ricorda il passo del Vangelo di Matteo (19, 12) in cui Gesù dice ai discepoli che alcuni «si sono fatti eunuchi per il Regno dei cieli». All’epoca gli uomini che non si sposavano erano malvisti; e siccome i discepoli di Gesù non erano sempre accompagnati dalle loro mogli, i farisei lo avevano appena messo alla prova sfidandolo sulla legge mosaica relativa al ripudio. La risposta di Gesù fu molto chiara [«Chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di concubinato, e ne sposa un’altra commette adulterio»], e il Vangelo riporta che i discepoli gli replicarono che – stando così le cose – allora non conveniva sposarsi.
Il Signore non rispose a questa obiezione in modo chiarissimo: disse loro che si poteva essere eunuchi a vario titolo, per nascita, per mano d’uomini, e anche volontariamente «per il regno dei cieli» [«qui seipsos castraverunt propter regnum caelorum»] tanto che concluse ammonendo «Chi può capire capisca».
Come che sia, la tradizione della Chiesa ha sempre letto queste parole riportate nel [solo] Vangelo di Matteo alla stregua di una metafora che legittimava la continenza, o anche la additava come condizione preferibile e persino «particolarmente confacente alla vita sacerdotale» quando «gioiosamente abbracciata e lodevolmente osservata». Non un obbligo, quindi, ma una libera scelta. Tanto che il Decreto conciliare ricorda che «essa non è certamente richiesta dalla natura stessa del sacerdozio». Tuttavia, i presbiteri cattolici sono invitati a preferire la continenza volontaria, e di conseguenza a scegliere di non sposarsi. Scelta obbligata se si tratta di uomini battezzati nella Chiesa latina. Il Concilio descrive verginità, continenza e celibato come una condizione preferenziale per i presbiteri anche come segno messianico: dato che nel regno dei cieli non ci sono matrimoni. Per questi motivi – dichiara sempre il Decreto – il celibato che inizialmente era solo raccomandato, è stato poi imposto per legge nella (sola) Chiesa latina «a tutti coloro che si avviano a ricevere gli ordini sacri». Una regola che si è consolidata solo dopo il primo millennio, per motivi più patrimoniali che spirituali, e risulta adottata definitivamente solo col Concilio di Trento.
Il Concilio Vaticano II modifica questa impostazione. La Costituzione dogmatica Lumen gentium ripristina il diaconato permanente come grado della gerarchia, e consente che sia «conferito a uomini di età matura anche viventi nel matrimonio, e così pure a dei giovani idonei, per i quali però deve rimanere ferma la legge del celibato». Di conseguenza, il matrimonio figura come impedimento per la sola ordinazione presbiterale (solo nella Chiesa latina). Il celibato resta concepito come un dono, e la Chiesa sollecita i presbiteri – sposati o meno – a perseverare nella continenza. La quale è cosa diversa sia dal celibato sia dalla castità e sia dalla verginità. Dal punto di vista giuridico è necessario tenere ben distinti questi elementi per non rischiare di mischiare morale e diritto.
Allo scopo di darsi regole in linea coi principi stabiliti dal Concilio Vaticano II, la Chiesa cattolica ha promulgato due Codici di diritto canonico: uno per la Chiesa latina (1983) e uno per le Chiese orientali (1990).
I canoni si dilungano molto sulla formazione di chi aspira a diventare «chierico» (anche chiamato «ministro sacro») e distinguono fra «giovani» e «uomini di età più matura». Finalmente, nel can. 277 del CIC si stabilisce l’obbligo di «osservare la continenza perfetta e perpetua per il Regno dei cieli», che fonda l’obbligo del celibato. Lo stesso canone attribuisce al Vescovo diocesano sia la competenza legislativa per stabilire norme più precise in questa materia, sia il compito di giudicare sull’osservanza di quest’obbligo in casi particolari. Si badi bene: l’obbligo in questione è la continenza, non il celibato; e il Vescovo può modulare quest’obbligo. Ne deriva che la continenza – benché perfetta e perpetua – non è assoluta.
I canoni che disciplinano il sacramento dell’ordine ne subordinano poi la ricezione ad una complessa serie di requisiti, fra i quali (can. 1037) si prevede che «il promovendo al diaconato permanente, che non sia sposato, e così pure il promovendo al presbiterato, non siano ammessi all’ordine del diaconato, se non hanno assunto, mediante il rito prescritto, pubblicamente, davanti a Dio e alla Chiesa, l’obbligo del celibato, oppure non hanno emesso i voti perpetui in un istituto religioso» (quest’ultima precisazione richiama il voto di castità, cui consegue la scelta celibataria). L’impegno a restare celibi è quindi solo una delle condizioni necessarie per ricevere l’ordine, non l’unica, né la più importante. Tant’è vero che il correlato impedimento (can. 1042) è dispensabile dalla Santa Sede (can. 1047).
Mi sembra evidente che il celibato, dal punto di vista giuridico, è quindi un mero obbligo disciplinare, persino derogabile, come del resto ammise lo stesso Paolo VI nell’Enciclica Sacerdotalis coelibatus, di per sé peraltro complessivamente certamente confermativa dell’obbligo generale.
Nel Codice dei canoni delle Chiese orientali il celibato dei chierici «è tenuto in grandissima stima» (can. 373) e i chierici – sia celibi sia coniugati «devono risplendere per il decoro della castità», secondo le regole dettate dal diritto particolare (can. 374) e i chierici coniugati devono offrire un «luminoso esempio agli altri fedeli cristiani nel condurre la vita familiare e nell’educazione dei figli» (can. 375). Com’è noto, non può essere ordinato vescovo chi è legato da un vincolo matrimoniale (can. 180).
Su queste basi, nel 2009 Benedetto XVI con la Costituzione apostolica Anglicanorum coetibus non solo accolse nella Chiesa cattolica chierici anglicani sposati, ma – pur ribadendo per i futuri candidati a ricevere l’ordine la regola generale del celibato – esplicitamente richiama la possibilità «di ammettere caso per caso all’Ordine Sacro del presbiterato anche uomini coniugati».
Mi sembra che nel complesso il diritto canonico attribuisca al celibato una funzione importante, ma non irrinunciabile. Una scelta volontaria apprezzabile, perché sposarsi è una scelta equivalente a quella di non sposarsi. Ognuno può scegliere liberamente se e quanto essere continente. Tuttavia, obbligare a non contrarre matrimonio è una ricchezza di cui – volendo – ci si può anche spogliare.