La presenza stessa di vere e proprie norme penali di diritto canonico è oggetto di un dibattito secolare. Arturo Carlo Jemolo ancora nel 1933 poneva sul tavolo i principali problemi legati alla previsione di un libro del Codice (del 1917) dedicato al diritto penale. La Chiesa cattolica è sempre stata attenta a mostrarsi come un apparato giuridico simile – se non identico – a quello degli Stati, perciò quando si è data un Codice (nel 1917) ha pensato di non potersi esimere dal dettare norme penali, anche se la sua potestà coattiva è necessariamente debole (come si fa ad obbligare un fedele a sopportare una punizione per avere commesso un delitto canonico, senza possederne i mezzi materiali?) e se quelli che il Codice chiama delitti, in realtà sono peccati: di per sé regolati in foro interno e ontologicamente destinati al perdono. Marco Ventura nel 1996 ha pubblicato un libro fondamentale sul rapporto problematico fra pena e penitenza nel diritto canonico postconciliare, che mette in luce aspetti che i canonisti non hanno ancora saputo affrontare con la necessaria profondità.
Il Concilio Vaticano II non si è espresso in modo esplicito sul diritto penale canonico. Il Sinodo dei vescovi del 1967 – che ha dettato le linee per la riforma del Codice del 1917 – si era raccomandato di rivedere l’impianto penale, ravvisandone tuttavia la compatibilità con i principi generali espressi dal Concilio che hanno portato alla riforma codificata nel 1983. In poche parole, è prevalsa l’idea che la “risposta penale” al delitto dovesse convivere con la “risposta penitenziale” al peccato, entrambe funzionali all’emendamento del reo-peccatore nonché alla riparazione del danno e dello scandalo causato dal peccato-delitto. In realtà, il diritto penale canonico si preoccupa maggiormente dello scandalo determinato dal peccato manifesto che non dal peccato in sé: quando questo non si vede e non crea scandalo, il rimedio penale resta infatti assorbito da quello penitenziale. Questo meccanismo rivela la differenza ontologica del diritto canonico (e più in generale, dei diritti religiosi) rispetto ai diritti statali, dato che la funzione dei diritti religiosi è primariamente spirituale e solo secondariamente sociale. La legge della Chiesa cerca sempre la salvezza dell’anima del peccatore delinquente, e quindi si ispira a principi affatto diversi da quelli propri del diritto penale statale. Ad esempio, la fonte della pena può dipendere da un precetto e non da una legge, le pene si accompagnano a rimedi penali che possono essere anche personalizzati, il vescovo è insieme legislatore e giudice, la condanna penale non è quantificata in astratto, la vittima del delitto è esclusa dal processo penale e rimane priva di garanzie risarcitorie e – at last but not least –tutto resta sotto l’ombrello del can. 1399 (non modificato) che attribuisce la massima discrezionalità all’autorità ecclesiastica in materia di effettiva erogazione della pena.
Per queste – e altre ragioni che non è possibile sintetizzare in questa sede – il diritto penale canonico è rimasto largamente inattuato e comunque si è dimostrato poco efficace per reagire a usi e costumi che hanno travolto la Chiesa degli ultimi decenni, specialmente in termini di riparazione del danno ed effettiva punizione del delinquente. Certi abusi – paradossalmente, i più gravi – non erano contemplati e quindi è stato necessario procedere con una legislazione complementare che di fatto ha prodotto un diritto penale canonico extra codicem, complesso e articolato, che effettivamente avrebbe richiesto maggiore coerenza rispetto ai principi generali. Per essere chiaro: la materia degli abusi sessuali e di potere rimane tuttora regolata fuori dal Codice e continua a mostrare alcune contraddittorietà, in parte emerse e in parte ancora nascoste, che la riforma non affronta (fatta salva l’esplicita menzione dei delitti a sfondo sessuale e pornografico nel nuovo testo del can. 1398).
Un canonista laico come me, si sarebbe aspettato una grande riforma contemporanea. Invece si deve accontentare di piccole operazioni di maquillage che confermano l’idea di un diritto penale canonico dettato per una Chiesa del terzo millennio che – ahimé! – continua a pensarsi come società di diseguali. Con buona pace dell’idea del Popolo di Dio, il diritto penale canonico continua a rivolgersi essenzialmente ai preti: fedeli prediletti, che devono però essersi comportati malino e anche essersi mostrati impermeabili al rispetto delle pene canoniche, se è stato necessario prevederne qualcuna di carattere patrimoniale (introduzione dell’ingiunzione di ammende). Ma per il resto tutto come prima, sicché è lecito pensare che l’arma rimanga in realtà ancora spuntata.
La delusione è cocente. La riforma del diritto penale canonico era in discussione da molti anni. Nel 2007 Benedetto XVI aveva costituito una Commissione per la riforma del Libro VI, incentrata su alcuni documenti che egli aveva già promosso nella sua precedente qualità di Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Il lavoro di questa Commissione emerge da uno scritto del 2010 di J. Ignacio Arrieta – allora come ora Segretario del Pontificio consiglio per i testi legislativi – che di fatto costituisce anche l’ultimo punto di arrivo pubblicamente noto di quel processo di revisione sostanziale [per gli appassionati del genere, ulteriori dettagli sull’orditura di questa «tela di Penelope» si trovano nell’ultimo libro di Geraldina Boni (pp. 137 ss.)]. Un testo è stato inviato a tutte le Conferenze episcopali, discusso da esperti, esaminato dalla plenaria del Pontificio consiglio e inviato al papa a febbraio 2020; firmato il 23 maggio scorso e presentato al pubblico il 1 giugno 2021. Un’accelerazione inimmaginabile per i tempi biblici della Chiesa, che ha portato alla Costituzione apostolica Pascite gregem Dei, con cui viene riformato – direi meglio, revisionato – il libro VI del Codice di diritto canonico.
Una volta letto: tutto qui?
E’ la domanda provocatoriamente e giustamente avanzata da Umberto R. Del Giudice, cui Andrea Grillo ha replicato alzando il tiro della riflessione sul piano sistematico e individuando alcuni cardini difettosi, che per parte mia sintetizzo così: l’ossessione della continuità e di una Chiesa giuridicamente perfetta. L’uno e l’altro creano un intreccio che non rende ragione del cambiamento d’epoca che la Chiesa è chiamata a vivere. In particolare, la logica della continuità non serve la conversione e obbliga i canonisti a guardarsi sempre indietro. Anch’io ho cominciato questo post con un richiamo storico, ma trovo assurdo che il diritto penale del terzo millennio sia rimasto ancorato ai difetti dell’Ottocento. Il respiro conciliare oscurato nel 1983 appare adesso sepolto in una dimensione ecclesiale clericocentrica (e perciò maschilista), che tuttora immagina i «soggetti del diritto» come «sudditi». I diritti e i doveri dei fedeli si declinano in termini di potestà di ordine e di giurisdizione e loro limitazioni, così da restituire l’immagine di una Chiesa sempre in chiesa, intenta a celebrare i riti (rectius: ad assistere alle celebrazioni), composta da fedeli ordinati a svolgere azioni sacerdotali altrimenti negate. I delitti per lo più non sono contro le persone, ma principalmente contro la fede, l’autorità, i sacramenti, la buona fama. Tutto così appare perfetto. Ma i nodi che erano venuti al pettine, restano tali.
I canonisti amano il diritto canonico. Ma ogni rapporto di amore chiede conversione continua e sguardo al futuro. Non esistono relazioni stabili che non sappiano rinnovarsi nel tempo. «Pascite gregem Dei» suona come un grido di allarme rivolto dal papa ai vescovi: «assumetevi le responsabilità di correzione che vi spettano». Io sento l’eco di «Vos estis lux mundi» e del pastore con l’odore delle pecore, ma l’avverto soffocata nell’impianto rétro del maquillage. Restare fermi senza cambiare nulla è un peccato contro lo Spirito santo, ma non è un delitto. E questo forse è il punto d’attacco che ancora manca alla riflessione canonistica del terzo millennio. Rileggere «dei delitti e delle pene» di Cesare Beccaria farebbe bene ai colleghi canonisti, se non osta il fatto che figura nell’Index librorum prohibitorum.